Approfondimenti

Approfondimenti

Il politico italiano Altiero Spinelli fu uno dei Padri dell'Unione europea. Fu inoltre una delle figure chiave dietro la proposta del Parlamento europeo per un Trattato su un'Unione europea federale, il cosiddetto “Piano Spinelli”. Quest'ultimo venne adottato dal Parlamento nel 1984 con una maggioranza schiacciante e fu di grande ispirazione per il consolidamento dei Trattati dell'Unione europea negli anni ‘80 e ‘90. A 17 anni Spinelli entrò nel Partito comunista e per questo venne imprigionato dal regime fascista tra il 1927 e il 1943. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, fondò il Movimento federalista in Italia. Lavorò per l'unificazione europea come consigliere di personalità quali De Gasperi, Spaak e Monnet. Esperto giurista, promosse la causa europea anche in campo accademico e fondò l'Istituto Affari Internazionali di Roma. In qualità di membro della Commissione europea, ne guidò la politica interna dal 1970 al 1976. Fu deputato del Parlamento italiano nelle file del Partito comunista prima di essere eletto al Parlamento europeo nel 1979.



Il Manifesto di Ventotene

Nel suo periodo a Ventotene, Spinelli lesse le opere di numerosi teorici del federalismo. Ispirato dai loro pensieri e delle loro idee preparò, insieme ad altri prigionieri politici, il Manifesto di Ventotene, nel quale tracciava i fondamenti della sua visione federalista e il futuro dell'Europa. Il Manifesto costituisce uno dei primi documenti in cui si sostiene una Costituzione europea. Intitolato inizialmente “Per un'Europa libera e unita”, il Manifesto I pionieri dell'UE Spinelli al Parlamento europeo, poco tempo dopo l'adozione da parte dello stesso del suo piano per un'Europa federale nel 1984. afferma che un'eventuale vittoria sulle potenze fasciste sarebbe stata inutile se avesse condotto a nulla di più che all'instaurazione di un'altra versione del vecchio sistema europeo di Stati-nazione sovrani, semplicemente uniti in alleanze diverse. Ciò avrebbe solo condotto a un'altra guerra. Il Manifesto proponeva la formazione di una federazione europea sovranazionale di Stati, il cui obbiettivo primario consisteva nel creare un legame tra gli Stati europei che impedisse lo scoppio di una nuova guerra.   



Articolo tratto da "La storia dell'Unione Europea"   https://europa.eu/european-union/about-eu/history_it

 
Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l improvvisa scomparsa della loro civiltà.

Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente. E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.







Le ipotesi fantasiose

L avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.







Le piramidi

In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.







La storia

La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l eresia, dall altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso. Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.







La matematica, il calendario, l astronomia

Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.

Matematica

I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via. In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell VIII. Astronomia

I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque

e Chichén Itzá.







Calendario

Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza. I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51). Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un idea dell antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico. Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti. La religione

La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l agricoltura e l 80% dell alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all incoronazione di un re. I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan. Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.







La scrittura

Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi. Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.







La scomparsa

Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l introduzione di nuovi culti. Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s impegnarono in un opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l istituzione dell encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán. Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.







I Maya oggi

Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos è rimasto dell antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo. Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia. Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere». Sergio Paramentola





Sergio Paramentola, autore dell'articolo, insieme alla guida Edgardo Coello
Trinidad:  la città museo di Cuba  o  la città museo dei Caraibi , soprannomi che anticipano il significativo patrimonio storico-artistico di questo luogo. Fondata nel 1514 da da Diego Velázquez de Cuéllar con il nome di Villa De la Santísima Trinidad, la città è Patrimonio dell'Umanità UNESCO dal 1988, anche grazie all'ottima conservazione delle architetture di epoca coloniale. In una posizione suggestiva, tra mare e monti, senza una comoda via di accesso, la città è invecchiata in un isolamento che ne ha preservato l'identità culturale da ogni possibile rifacimento o innovazione. Nel centro storico le stradine conservano la pavimentazione originale, uno sconnesso selciato che nella maggior parte dei casi è consentito percorrere soltanto a piedi. E così, adeguandosi ai lenti ritmi locali, si può passeggiare per le viuzze del centro e ammirare i lasciti dell'epoca coloniale: dalle casas particulares tinteggiate con colori pastello ai palazzi e le chiese di Plaza Mayor, la piazza principale della città, agli altri palazzi storici che si trovano nel centro e che sono spesso diventati dei musei. Su Plaza Mayor si affacciano la Chiesa della Santissima Trinità, un monumento neoclassico di un'importanza straordinaria non solo per Trinidad ma per tutta la nazione, al cui interno è conservata la statua in legno del XVIII secolo del Cristo de la Vera Cruz, e la Chiesa e il Convento di San Francesco, un complesso nato come convento e diventato poi chiesa nonché, per un certo periodo, prigione e oggi un museo. Lo splendido Palazzo Cantero, edificio neoclassico, è famoso soprattutto per il Museo Histórico Municipal al suo interno, mentre il Museo Romantico di Trinidad si trova nel Palazzo del Conte Brunet e uno dei tanti palazzi della ricca famiglia Iznaga ospita il Museo de Arquitectura Trinitaria. Poco fuori da Plaza Mayor, si trovano i resti dell'Eremita della nostra Signora di Candelora, un ospedale spagnolo del XVIII secolo completamente abbandonato ma dal quale, grazie alla posizione sopraelevata, si può ammirare una suggestiva vista della città. Quando poi sul centro storico calerà la notte, si potrà passare dalle visite culturali alla vita notturna, con numerosi localini per la movida, in particolare sempre in Plaza Mayor. Se si ha un po'di tempo per dare un'occhiata ai dintorni di Trinidad, si potrà sciiegliere tra una giornata di relax nella stazione termale di Topes de Collantes, a 20 km da Trinidad, e un bagno a Playa Ancon, una spiaggia a sud della città, dalle acque particolarmente calde e con importanti formazioni di barriera corallina, che attira appassionati di snorkeling da tutto il mondo. Un'altra possibilità è una visita alla Valle de los Ingenios, lungo la via che da Trinidad porta a Sancti Spiritus. Nel XIX secolo la valle ospitava molti zuccherifici (gli ingenios, appunto) la maggior parte dei quali andò però distrutta nel corso delle guerre di indipendenza che si combatterono al tempo. All'interno della valle si trova la Torre di Iznaga, sulla quale si può salire e ammirare tutta la valle, con un pensiero a tempi più ingiusti e crudeli, dove i sorveglianti vi salivano per controllare gli schiavi a lavoro. Una curiosità: dal 1994 Trinidad è gemellata con l'italiana San Benedetto del Tronto.


L'Isla del Coco, ovvero l'Isola del Cocco, fu scoperta nel 1526 dall'esploratore spagnolo Joan Cabezas, durante l'epoca dei grandi esploratori e delle corse coloniali. L'isola si trova a più di 500 km dalla costa costaricana, una distanza considerevole che non può essere coperta in meno di 32 ore.  Proprio questo suo isolamento è però la carta vincente dell'isola, che grazie ad esso ha potuto preservare le proprie specificità ambientali attraverso i secoli.  Con un'estensione di 23,85 km², è un territorio immacolato, anche in virtù della conformazione stessa dell'isola, montuosa e aspra; si tratta pertanto di un sito naturalistico di importanza primaria a livello mondiale, dove si conserva un patrimonio biologico peculiare, caratterizzato anche da una forte presenza di specie endemiche.  Proprio per questa sua innegabile rilevanza, l'isola è stata dichiarata dal governo costaricano Parco Nazionale prima e successivamente Area di Conservazione marina, fino alla nomina di Patrimonio Naturale dell'Umanità da parte dell'UNESCO nel 1997.  L'isola del Cocco è inoltre il centro della Bioregione Isola Del Cocco, un'area d'importanza fondamentale nella conservazione dell'ambiente marino e delle specie che lo popolano.  Questa enorme biodiversità è valsa all'isola il soprannome di Galapagos Costariquenha, ovvero la Galapagos costaricana.  L'isola del Cocco ospita difatti 235 specie di piante, 362 di insetti e 85 di uccelli, oltre a varie specie di rettili e ragni.  In molti casi si tratta di specie endemiche, che possiamo trovare solamente qui.  Anche le specie marine sono molte e differenziate: testuggini, corallo (18 specie), crostacei, molluschi (ben 118 specie), e poi pesci, con 200 specie diverse.  In particolare è noto come le acque dell'isola abbondino di squali (ed infatti un altro soprannome dell'isola è quello di Shark Island): lo squalo pinna bianca, lo squalo martello, lo squalo pinna d'argento e il gigantesco squalo balena.  Le acque dell'Isola del Cocco ospitano inoltre anche ben 3 specie di delfini; non a caso, l'isola è una meta ambitissima dai divers.







Per secoli però, ad attirare visitatori non è stata soltanto la natura lussureggiante e la biodiversità dell'isola, quanto ciò che si poteva nascondere sotto di essa.  Dall'epoca della sua scoperta, l'isola divenne infatti un covo di pirati.  In particolare, tra il XVII e il XIX secolo sarebbero stati qui sepolti ricchissimi tesori.  Il più celebre è il Bottino di Lima, ovvero il ricco carico del brigantino inglese Mary Dear, agli ordini del Capitano Thompson.  Sedotto dall'enorme quantità di oro, argento e preziosi, inclusa una statua della Madonna in oro e pietre preziose, Thompson si sarebbe sbarazzato dei soldati che sorvegliavano il bottino e fatto rotta sull'Isola del Cocco, dove avrebbe occultato il tesoro.  Le vicende sarebbero provate da alcuni carteggi, ma come spesso succede realtà e leggenda si mescolano, rendendo difficile stabilire se questo tesoro sia mai esistito e se qualcosa sia mai stato ritrovato.  Sempre secondo le leggende, sull'isola avrebbero trovato alloggio anche altri tesori, come quello che William Davies avrebbe sepolto nel 1684 o quello lasciato da Benito Espada Sangrienta nel 1819.  In molti si sono mossi alla ricerca dei preziosi bottini, incluse spedizioni internazionali a carattere scientifico, ma nulla è stato trovato, a dimostrazione che forse, leggende a parte, l'unico vero tesoro dell'Isola del Cocco è l'unicità del suo patrimonio naturalistico.
A ben 2.850 metri sul livello del mare sorge Quito, capitale dell'Ecuador. L'altezza a cui è situata la città la rende la seconda capitale più alta del mondo, subito dopo La Paz (Bolivia), in una posizione decisamente suggestiva: adagiata sulle falde del vulcano Pichincha, sopra il bacino idrico di Guayllabamba, in una vallata circondata dalle alte vette andine. L'anno della fondazione della città è incerto, ma viene datata al 1534, all'arrivo degli spagnoli, anche se Quito prende in realtà il nome dall'antico insediamento indigeno di Quitu, sui cui resti è stata fondata. Oggi tra l'area urbana e i dintorni rurali, la città conta ben 2.239 191 abitanti, divisi nelle 32 unità delle Parroquias. La parte coloniale della città è bellissima e molto interessante dal punto di vista storico-artistico, con una gran quantità di monumenti tra chiese, monasteri, cattedrali e palazzi, e con le sue strette viuzze e le piazze che ospitano i coloratissimi mercati tipici della tradizione locale. Il centro storico è il più grande, meglio conservato e meno alterato centro di tutte le Americhe. Non per niente Quito è stata la prima città, assieme a Cracovia, ad essere nominata patrimonio dell'UNESCO nel 1979. Nel solo centro storico della città si trovano circa 40 tra chiese e cappelle, 16 convitti e monasteri e relativi chiostri, 17 piazze, 12 sale capitolari, 12 musei e un non meglio precisato numero di cortili. La produzione artistica di Quito non trova eguali nel nuovo continente e la città ospita quella che è la più importante collezione di arte coloniale d'America, caratterizzata dalla forte presenza di artisti indigeni e meticci. L'architettura è quella tipica del barocco coloniale, ma negli edifici come nell'arte figurativa le influenze sono molteplici, dagli elementi spagnoli a quelli italiani, dagli influssi fiamminghi a quelli precolombiani. La lista dei monumenti da visitare include sicuramente il complesso di edifici affacciati sulla Plaza Grande, a partire dalla Cattedrale di Quito, una delle prime chiese ad essere costruite nell'epoca coloniale – anche se la sua costruzione, avvenuta nel corso di tre secoli, ha riflettuto vari stili, dal gotico al barocco al neoclassico – e poi il Palazzo Arcivescovile, sede della Curia Diocesiana, e il Palazzo di Carondelet, attuale sede del governo. Altri importantissimi monumenti sono la Chiesa della Compagnia (Iglesia de la Compañia de Jesús), una delle più importanti chiese barocche del Sud America, la Basilica del Voto Nacional, la chiesa El Sagrario e le due chiese di San Francisco e San Agustin. Dove la zona coloniale è così ricca di storia e arte, la zona moderna di Quito è invece ricca di alberghi e centri commerciali. Per la movida sono rinomate le zone di La Mariscal e Plaza Foch, con i loro bar, discoteche e night club. Non solo monumenti e vita notturna però, infatti a Quito sarà anche piacevole visitare i numerosi parchi cittadini, come il Parco Metropolitano e il Parco Bicentenario, rispettivamente il più grande e il secondo più grande parco urbano del Sud America, e il Parco La Carolina, anch'esso grandissimo, che contiene al suo interno vari altri parchi e giardini tra cui il Parco Náutico e il Giardino botanico di Quito, e dove si trova anche il Museo Ecuadoriano di scienze naturali. Infine, due occasioni per godere di una vista mozzafiato e scattare foto memorabili: un giro sulla funivia cittadina chiamata TeleferiQo, e una visita alla collina El Panecillo(letteralmente piccolo pezzo di pane), che domina il centro storico. La vetta di questa collinetta di 200 metri tocca i 3.016 metri sul livello del mare e da qui si può avere una suggestiva vista di tutta la città. Secondo gli storici, in epoca Inca sulla cima della collinetta si trovava un tempio dedicato all'adorazione del sole, ma esso venne distrutto con l'arrivo degli spagnoli. Oggi in cima a El Panecillo c'è un'enorme statua della Madonna, curiosamente in alluminio, la Vergine del Panecillo, copia di un originale conservato nella chiesa di San Francisco, sempre a Quito.
È nella parte meridionale del Perù, tra le regioni di Cusco e Madre de Dios, che si trova il Parco Nazionale del Manu, bene naturale protetto dall UNESCO. Il parco, con un estensione di 17162,95 km², ospita un gran numero di specie animali e vegetali, alcune delle quali a rischio estinzione, e a causa di questa sua straordinaria biodiversità esso è stato dichiarato dall UNESCO prima, nel 1977, Riserva della Biosfera e poi, nel 1980, Patrimonio dell Umanità.
Il parco occupa tutta l area del bacino del fiume Manu e ha una topografia ricchissima grazie alle significative variazioni di altitudine che occorrono nell area. Si passa infatti dai 350 metri sul livello del mare nell area del parco che si trova nella Foresta Amazzonica occidentale, col suo specifico habitat da foresta pluviale quindi, agli ambienti della Yunga peruviana ad altitudini medie, e alle praterie e boscaglie montane quando si raggiungono i 4200 metri d altitudine sul versante orientale della Cordigliera delle Ande. Questa varietà topografica si traduce, come si è detto, in un livello di biodiversità tra i più alti di tutti i parchi del mondo.

Per quanto riguarda la fauna, si contano più di 220 specie di mammiferi, come la tigre nera, la scimmia choro comune, il cervo delle Ande, la maquisapa nera, il gatto delle Ande e molti altri, e poi 68 rettili, 77 di anfibi e circa 210 tipi di pesci. Anche gli uccelli sono numerosissimi (si parla di 800 specie) e si vorrà dunque prendere in considerazione il parco di Manu come meta per le vacanze se si è grandi appassionati di birdwatching. Tra farfalle, formiche, libellule e scarafaggi poi, si superano le 2300 specie di insetti, con molte specie ancora da classificare. Una menzione a parte tra gli ospiti del parco va fatta per l ornitorinco: non una specie indigena del Perù, venne introdotta nel 1965 dagli aborigeni australiani che volevano commerciare con i peruviani, e si è ambientato perfettamente nel parco naturale.

La varietà nell altitudine, nel microclima e nel terreno del parco si riflette anche sulla flora, ricchissima e varia. Qui è possibile ammirare anche la conifera argentina, che occupa circa un ettaro del territorio del parco. L impenetrabilità del parco e l enorme eterogeneità della flora rendono di difficile classificazione le varie specie di piante ospitate. Le stime variano tra le 2000 e le 5000 specie vegetali. Per dare un idea della diversità naturale basti pensare che in un solo ettaro di terreno è possibile trovare anche 220 diverse specie.
Un ruolo chiave nell eccezionale preservazione dell incontaminato ecosistema del parco lo ha giocato senz altro il suo isolamento. Il parco è infatti difficilmente accessibile per la sua conformazione e posizione, e comunque ai turisti è consentito entrare soltanto in apposite aree. L unica presenza umana all interno del parco sono le numerose ma picole comunità contadine di lingua quecha e le varie tribù amazzoniche native, come i Matsiguenka, gli Yine, gli Amahuaca, i Nahua, gli Amarakaeri e gli Huashipaire. Un regime di protezione dell area del parco ebbe inizio formalmente nel 1968 quando il parco venne dichiarato riserva naturale, stato poi confermato e rafforzato dai successivi riconoscimenti UNESCO. Oggi il parco è diviso invarie zone ad accesso regolamentato, di cui la più ampia è la Restricted Zone, dedicata esclusivamente alla preservazione del patrimonio ambientale e inaccessibile, se non per qualche concessione ai ricercatori e alle comunità indigene. A proposito di ricerca, nel parco ha sede uno dei più importanti e famosi centri di ricerca dell Amazzonia, ovvero la stazione biologica di Cocha Cashu.

Guardando al futuro del parco è chiaro che la sfida per la preservazione si fa più intensa e difficile. Con il mutamento delle aree circostanti (costruzione di nuove strade, esplorazioni per l estrazione di gas naturale) sarà ancora possibile mantenere l isolamento e lo stato incontaminato di cui il parco ha goduto? Quale sarà l impatto del progressivo aumento delle popolazioni indigene e dei loro bisogni? A queste ed altre questioni dovrà essere data risposta se si vorrà continuare a conservare un patrimonio naturale dal valore inestimabile.
In America la produzione di cacao ha origini antichissime, antecedenti pure all'arrivo degli spagnoli. Infatti, quando Cortez arrivò qui nel XVI secolo, Montezuma, capo degli Aztechi, gli fece assaggiare una bevanda chiamata xocolatl, bevanda che poi, solo con una piccola aggiunta di zucchero, riscontrò un grande successo tra gli europei. Come ben sappiamo quest'ultimi si dedicarono poi a sfruttare le ricchezze del continente americano come meglio credevano, e poiché la regione dell'attuale Ecuador non era particolarmente ricca di metalli preziosi, la risorsa più sfruttata fu in questo caso proprio il suo pregiatissimo cacao.



Da cinquecento anni infatti, l'Ecuador fornisce al mondo un'apprezzatissima qualità di cacao chiamata Nacional Arriba, che costituisce circa l'80% delle esportazioni di cacao del paese, e il 63% della produzione mondiale di cioccolato finissimo. Inoltre, proprio come accade per il vino, il cioccolato ha un sapore diverso a seconda del territorio dove le fave di cacao sono state coltivate, e la diversità geografica dell'Ecuador garantisce una grande varietà di aromi.

Lo straordinario cacao ecuadoregno non solo ha avuto un'importanza centrale per l'economia del paese, ma ne ha anche influenzato la storia. Verso la fine del XVIII secolo vi fu un primo boom della produzione di cacao, i cui proventi, secondo gli storici, ebbero un peso nel finanziare due momenti di svolta nella storia del paese, ovvero il raggiungimento dell'indipendenza e la successiva rivoluzione liberale. Un secondo boom si registrò a partire dalla fine del XIX secolo, ma all'inizio del XX un'epidemia si diffuse tra le piante di cacao in Ecuador, mentre nuove coltivazioni si sviluppavano in Asia e Africa, eclissando la buona stella del cacao ecuadoregno.



Negli ultimi anni però non solo il cacao, grazie alla sua superiore qualità, è tornato alla ribalta nelle esportazioni, ma sì è anche cominciata a sviluppare una raffinatissima produzione di cioccolato, attività in cui la nazione non si era mai specializzata, ma che l'ha portata recentemente a vincere molti premi internazionali del settore, battendo spesso anche i famosissimi svizzeri.



L'industria cioccolatiera ecuadoregna si compone oggi di venticinque marche esportate in trenta paesi in tutto il mondo. Il pregiatissimo cacao qui prodotto viene lavorato con tecniche artigianali, per un cioccolato di qualità superiore. Scuro e splendente alla vista, la superficie liscia a indicare che gli zuccheri sono stati ben compattati, la rottura della tavoletta causa un crack nitido e secco, garanzia di accurati processi di produzione, in bocca sprigiona un gusto eccezionale, vellutato, avvolgente e persistente.

Tra i principali produttori di cioccolato, vi sono i coniugi Peralta e Barboto, che hanno creato la Pacari Chocolate, la più pregiata cioccolata dell'Ecuador, un prodotto organico e bio, vincitore di molti premi prestigiosi, che grazie a questo successo internazionale ha regalato una speranza di un futuro migliore ai contadini delle poverissime zone in cui questo viene prodotto.
Il Cao Dai o Caodaismo è un movimento religioso dalla storia molto recente, risultato della fusione di vari elementi originari di culti tradizionali sia orientali che occidentali, quali taoismo (da cui derivano i rituali occulti), confucianesimo (per i suoi precetti etici), buddismo (per concetti come il karma e la reincarnazione), e poi anche shintoismo, induismo, islam, ebraismo e cristianesimo. La gerarchizzazione interna è invece tipica della Chiesa Cattolica. Fondato nel 1926 dal funzionario dell'amministrazione coloniale francese Ngo Van Chieu, il Caodaismo è quindi un culto sincretista che si propone di riunire tutte le religioni per promuovere la pace e la tolleranza e venera un unico dio (che è il creatore di tutte le principali religioni) rappresentato come un occhio sinistro con il simbolo dello ying e dello yang nella pupilla.
La santa sede del Caodaismo si trova subito fuori Tay Nihn, non molto lontano da Ho Chi Min, nel sud del Vietnam. Il complesso, che include uffici amministrativi, alloggi per i religiosi e un ospedale dove viene praticata la medicina tradizionale vietnamita, basata sull'uso di erbe mediche, ospita il Grande Tempio del Cao Dai (Thanh That Cao Dai), costruito tra il 1933 e il 1955.
Strutturalmente il tempio ricorda molto una cattedrale cattolica, con la sua grande navata centrale che conduce all'altare e all'abside e le due navate minori ai lati, mentre la facciata è affiancata da due torri a pianta quadrata; dal punto di vista estetico però non potrebbe esserne più lontana, con decorazioni, sia all'interno che all'esterno, piuttosto stravaganti. Dalle colonne-drago ai cobra a sette teste, tutta la decorazione del tempio fa riferimento a complesse simbologie e numerologie, mentre per la scelta dei colori prevalgono il giallo, il blu e il rosso, rappresentanti rispettivamente buddismo, taoismo e confucianesimo.

La navata centrale è divisa in nove sezioni, ognuna delle quali termina con un piccolo gradino, a rappresentare i nove gradini della scala per il paradiso. Al termine della navata, in alto, si trova una cupola che rappresenterebbe il paradiso, e sotto di essa una sfera blu recante il simbolo dell'Occhio Divino.
Visitando il tempio non si vorrà certo perdere il momento della vera e propria cerimonia, da osservare nel massimo rispetto, con i fedeli che pregano seduti a terra in file ordinatissime e tutti vestiti nelle caratteristiche tonache bianche. I preti e gli ordinati di grado superiore hanno vesti colorate gialle, blu o rosse a seconda della loro inclinazione (blu per il pacifismo e il taoismo, giallo per la virtù e il buddismo, rosso per l'autorità e il confucianesimo), mentre i vescovi sono riconoscibili grazie al simbolo dell'Occhio Divino ricamato sulle vesti.

Ogni giorno si tengono quattro cerimonie, alle 6 del mattino, a mezzogiorno, alle 18 e a mezzanotte. Le cerimonie sono cantate e accompagnate da un'orchestra di dieci musicisti. Per entrare nel tempio bisogna vestire in maniera rispettosa, con gonne e pantaloni sotto al ginocchio, scoprire il capo e abbandonare le scarpe.
Casablanca non sarà forse alla pari delle altre città del Marocco per ricchezza del patrimonio storico-artistico, ma è senz'altro ben presente nell'immaginario europeo, e occidentale in generale. Un grande peso nella fama della città lo ha sicuramente giocato il film Casablanca, basta infatti sentire il nome della città e subito vengono alla mente le suggestive atmosfere del classico hollywoodiano. Ma se ci lasciamo alle spalle l'epico romance in bianco e nero di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman e guardiamo all'odierna Casablanca troviamo una città moderna e cosmopolita, certo molto diversa dalle altre città del Marocco.
È una città relativamente giovane – fu costruita nel 1906 in parte all'interno delle mura originarie dell antica città berbera che lì sorgeva prima di essere rasa al suolo da un terremoto – simile ad una metropoli dell'Europa meridionale, con i suoi quattro milioni di abitanti che la rendono la città più popolosa del Marocco. Si dice in realtà che in Marocco ci siano quattro capitali: secondo questa visione Rabat – cioè la vera capitale del Paese - sarebbe considerata la capitale amministrativa, e Marrakech e Fes rispettivamente capitale  culturale  e capitale  spirituale , lasciando a Casablanca il titolo di capitale finanziaria. E a ragione, se consideriamo che è qui che si trova il maggior numero di industrie e servizi del Paese e che si registra il più alto reddito nazionale. La borsa di Casablanca è inoltre la quarta piazza finanziaria africana per importanza e qui si concentra il 30% della rete bancaria marocchina.

Questo non significa però che la città manchi di luoghi di interesse storico e artistico o semplicemente belli da visitare! Se amate le passeggiate sulla spiaggia e i tramonti romantici la zona marittima di Ain Diab è una tappa obbligatoria, dove potrete anche prendere parte alla vita notturna della città. Dal punto di vista culturale invece, l attrattiva numero uno di Casablanca è probabilmente la grande Moschea di Hassan II, nientedimeno che la più grande moschea di tutta l Africa e la settima nel mondo.

Quasi altrettanto famosa è la Cattedrale del Sacro Cuore,risultato di una mescolanza di elementi neo-gotici e Art Decò, più elementi tipici dell architettura marocchina. In seguito all ottenuta indipendenza del Marocco la chiesa è stata sconsacrata, ed è forse per questo che, al contrario dell esterno dell edificio, sempre impressionante e ammirabile, gli interni risultano oggi un po  trascurati. Rinomati sono anche i freschi giardini del Parc de la Ligue Arabe, dall impostazione tipicamente francese, e il Palazzo Reale, chiuso però alle visite. Come in molte altre città nordafricane troviamo poi, nell entroterra, la medina, con il caratteristico souk, dove immergersi per un assaggio del Marocco più  tradizionale .
Simbolo invece del lato più moderno e metropolitano della città è il Casablanca Twin Center: due torri gemelle da 28 piani l una che ospitano negozi, uffici e alberghi di lusso. Nella B Tower, anche detta East Tower (in contrapposizione alla A Tower/West Tower) si trova il Kenzi Tower Hotel voluto da Geddafi, con le sue 210 camere da letto e 27 suite, inclusa la lussuosissima Casablanca Royal Suite. Mentre la A Tower ospita per lo più negozi e uffici, nella B Tower si può cenare nel ristorante panoramico al ventisettesimo piano, oppure bere un cocktail sulla terrazza del bar Sky 28, all ultimo piano, che offre una vista mozzafiato sulla città.

Storia e modernità vanno insomma a braccetto, e qui a Casablanca si può apprezzare la bellezza dei siti storici senza rinunciare ai vantaggi di trovarsi in una città cosmopolita e all avanguardia, dai servizi efficienti e dalla piacevole vita mondana.
Una delle più belle riserve di caccia, non solo del Botswana ma di tutto il continente africano, è la Moremi Game Reserve, situata sul lato orientale del delta dell'Okavango. È importante sottolineare fin da subito come questa, all'epoca della creazione nel 1963, sia stata specificatamente designata come riserva di caccia e non come parco nazionale, in modo che le tribù storicamente presenti nell'area potessero continuare a viverci.
La Moremi Game Reserve fu la prima riserva africana voluta dagli abitanti del luogo, ovvero la tribù BaTawana, preoccupata per l'impoverimento della fauna selvatica. L'iniziativa fu portata avanti dalla terza moglie del defunto capo tribù Moremi, da cui la riserva prende nome.
Con questa riserva il governo del Botswana ha voluto portare avanti un'idea di eco-turismo che non privilegiasse eccessivamente i guadagni a scapito dell'impatto ambientale. Pertanto si ha qui la possibilità di venire a contatto con la parte più incontaminata e autentica del continente africano. La stessa riserva ha pochissimi lodge e solo qualche area per il campeggio (ma i visitatori che vogliono visitare il parco possono trovare alloggio nei lodge alla periferia della riserva).

La Moremi Game Reserve è l'unica area protetta nella regione del delta dell'Okavango e pertanto è fuor di dubbio la sua importanza naturalistica. Grazie all'incontro tra terra e acqua che avviene nel delta, ambienti più secchi si alternano a boschi e lagune, per una discreta varietà di habitat, considerate le dimensioni non eccezionali della riserva (quasi 5000 km²). E proprio questa varietà la rende così appetibile agli occhi dei turisti, che possono qui ammirare un gran numero di specie animali selvatiche, inclusi ovviamente i famosi Big Five africani (elefante, leone, leopardo, rinoceronte, bufalo) e praticamente tutte le più diffuse specie, sia erbivore che carnivore, della regione, come giraffe, iene, impala, zebre e sciacalli.
Inoltre come sanno bene gli amanti del bird-watching, la Tanzania è una sorta di terra promessa per gli appassionati, e l'area della Moremi Game Reserve non fa certo eccezione: sono presenti quasi 500 specie di volatili delle più varie, alcune delle quali anche in via d'estinzione. A proposito di specie protette, nella riserva abita anche il licaone, sotto tutela fin dal 1989, e sia il rinoceronte bianco che quello nero sono stati recentemente reintrodotti nel parco.

Come spesso è il caso per i parchi africani, la stagione migliore per visitare la Moremi Game Reserve è da Luglio a Ottobre, quando le pianure alluvionali stagionali si vanno per asciugare e la fauna selvatica si raduna attorno alle acque permanenti, luoghi strategici per avvistare gli animali nei vostri safari. Le escursioni potranno compiersi a bordo di veicoli 4x4 o per mezzo delle più caratteristiche imbarcazioni mekoro, tradizionali piroghe realizzate con tronchi d'ebano, guidate da guide esperte.
Un'ultima raccomandazione prima della partenza: considerata la massiccia presenza di pozze d'acqua e vari ambienti palustri nel parco, l'intera zona è un ambiente ideale per le zanzare malariche; si raccomanda quindi ai viaggiatori di prendere tutte le precauzioni del caso.
Colori brillanti e piatti, disegni semplici, materiali poveri: queste sono in linea generale gli aspetti che caratterizzano le opere accomunate, dal momento della nascita dello stile negli anni '60 fino a oggi, sotto il nome di stile tingatinga.
Questo genere pittorico, visivamente accattivante e vicino per temi alle correnti europee naïf e surrealiste, fece facilmente presa sui viaggiatori occidentali, che comprarono fin da subito ben volentieri le opere degli artisti locali. Eppure quest'arte  da turisti , tanto obbligata sul piano della forma a rispondere a certi criteri di commerciabilità, ha saputo anche evolversi al passo con la società tanzaniana, della quale ha saputo interpretare le trasformazioni. L'eredità del fondatore Edward Said Tingatinga (da cui lo stile evidentemente prende nome) fu raccolta da una scuola che continuò a seguirne la poetica, e grazie sicuramente anche al successo commerciale dello stile, quest'arte dalle umili origini è finita con l'essere, oggi, senz'altro l'espressione artistica più rappresentativa della Tanzania.
Si diceva delle umili origini di quest'arte, e infatti quando negli anni Sessanta cominciò a dipingere, Edward Said Tingatinga era un uomo con un'istruzione elementare che lavorava come domestico per un funzionario britannico nell'area di Dar es Salaam: la sua vocazione artistica, che cercò in un primo momento sfogo in campo musicale, trovò il suo mezzo espressivo in materiali poveri e in uno stile semplice. Nei suoi primi lavori trovarono posto animali rappresentati con forme stilizzate e fantastiche, dipinti su materiali di scarto, pezzi di legno o masonite, con vernice per biciclette. L'uso degli accesi colori degli smalti per telai, dettato dalle necessità, divenne poi caratteristico dello stile tingatinga: gli smalti non diluiti donavano alle opere una caratteristica lucidità e la densità dei colori aggiungeva una dimensione plastica alle campiture a causa della sovrapposizione dei vari strati di vernice.

Il successo commerciale dello stile tingatinga ne ha esteso la popolarità in altri paesi africani: sia in Tanzania che nei paesi limitrofi, molte opere vengono vendute come  tingatinga  sfruttando la fama della scuola. Ovviamente solo una parte minoritaria di queste è effettivamente l'opera di artisti appartenenti alla scuola originale. La necessità di creare opere appetibili per i turisti ha contribuito a caratterizzare in maniera ben definita l'arte tingatinga: opere di piccole dimensioni, facilmente trasportabili in aereo, recanti immagini che rimandano all'Africa così come percepita nell'immaginario europeo (gli animali selvaggi sono i soggetti più rappresentati), o anche decorazioni su oggetti di arredamento apprezzati come souvenir.
Rimane aperto a discussioni se l'arte tingatinga sia uno stile totalmente originale oppure legato ad precedenti tradizioni artistiche, e, nel caso, quali queste siano. Affinità sono probabilmente da ricercare nell'arte della costa orientale dell'Africa, dove si può ritrovare quel bisogno caratteristico dell'arte tingatinga di riempire totalmente lo spazio a disposizione dell'artista, in questo caso con le fantasie tipiche della cultura Swahili. Le speculazioni sul fatto che prima di cominciare con i lavori  portatili  su basonite Tingatinga avesse eseguito dei dipinti su parete, collegherebbero inoltre la sua arte alle tradizionali pitture murarie delle tribù Makua e Makonde, da cui il pittore stesso discenderebbe.
Il Sudafrica è noto per essere un paese multiculturale, dove alle tradizione africana si affiancano influenze non solo europee (olandesi, inglesi, portoghesi) ma anche asiatiche. Questa multiculturalità si riflette nei vari ambiti della vita quotidiana della nazione e ovviamente anche a tavola! La cucina sudafricana è infatti il risultato della commistione dei diversi sapori, odori, colori e tradizioni provenienti dalle varie etnie e culture che hanno disegnato il volto di questa nazione, e proprio come lo stesso Sudafrica essa è dunque variegata, multiforme e coloratissima!
Al centro della tavola sudafricana sta il mais, alimento che per lungo tempo è stato fonte di sostentamento per la comunità nera, e che viene consumato in ogni forma, dai porridge alla polenta, includendo la classica pannocchia arrostita alla brace. La carne alla brace, o come chiamano il barbecue qui, braai, è un altro must della cucina sudafricana, con grigliate che includono i tipi di carne più svariati: non soltanto le pregiatissime carni di bovino - da animali allevati esclusivamente all aperto - paragonabili alle più famose carni argentine, ma anche cacciagione varia e carni più insolite quali struzzo, facocero e persino coccodrillo! La carne è inoltre protagonista anche di molti stufati, preparati secondo la tradizionale, lunga cottura sui carboni ardenti di derivazione boera, che prevede l uso di una padella a tre piedi, il potjie. Nella ricetta del potjiekos la carne è cotta per ore assieme a verdure assortite (carote, cavoli, zucca) e riso o patate. Qui come in praticamente ogni altro tipo di preparazione viene impiegata una gran varietà di spezie profumatissime; il massiccio uso di spezie che caratterizza la cucina sudafricana è un eredità malese, e risale agli albori del periodo coloniale.

Ma un paese come il Sudafrica, bagnato da ben due oceani, non può non aver raffinato l arte di cucinare il pesce, che infatti si può trovare sempre freschissimo praticamente ovunque. Le freddi correnti oceaniche sono ideali per i crostacei, e rendono il Sudafrica la terra promessa degli amanti dell aragosta. In particolare sulle coste, si potranno gustare ostriche, gamberi e aragoste di prima scelta a prezzi contenuti. Consumatissimo è anche il kinglip, un pesce dalle carni sode cucinato al forno, fritto o grigliato, e poi condito con una salsa al burro e limone o al burro e aglio.
Altre diffusissime specialità sono:
biltong: striscioline di carne aromatizzate e essiccate, ideali negli aperitivi;
amadumbe: un purè di arachidi e di patate dolci con burro;
bobotie: un piatto molto particolare e speziato, costituito da carne macinata cotta al tegame con curry malese, limone, zucchero e mandorle e amalgamata con uova sbattute;
mealiepap: un porridge con carne e sugo di cottura della stessa, parte anche della colazione sudafricana, consumato, in questo caso, con latte e zucchero;
sosatie: maiale o agnello tagliati a cubetti e marinati, cotti allo spiedo assieme ad albicocche secche e consumati con il krummelpap (polenta di granturco) o con il riso.

Se invece avete un debole per i dolci allora dovete assolutamente provare i poffertjies, una sorta di pancakes, ma fritti, serviti con una spolverata di zucchero, le koeksister, profumatissime frittelle appartenenti alla tradizione olandese, aromatizzate con cannella, cardamomo e anice, e la melktert una torta con una farcitura al latte aromatizzata con cannella.

È inoltre in crescita in Sudafrica la realtà vinicola locale, che ha raggiunto punti di eccellenza riconosciuti anche da critici europei, che considerano la produzione sudafricana alla pari della nostra. Oltre a vini bianchi e rossi vengono distillati anche grappe, liquori e birre, quest ultime consumatissime in particolare nelle varietà più leggere e chiare.
Il territorio di Salinas de Guaranda, nella provincia del Bolivar, Ecuador, comprende il villaggio di Salinas e le varie frazioni distribuite nelle aree circostanti, e si estende dai 600 agli oltre 4000 metri di altitudine, arrivando a contare 10000 anime. Nel 1971 arrivarono qui un gruppo di salesiani e volontari dell'operazione Mato Grosso, intenzionati a portare avanti attività di sostegno sociale. All'epoca il villaggio era in condizioni di estrema arretratezza e povertà – non c'erano nemmeno acqua potabile o strade – ma, grazie all'iniziativa della popolazione indigena e al sostegno dei volontari, Salinas è riuscita a risollevarsi e a svilupparsi all'interno di un discorso di commercio equo e solidale.  Si iniziò creando una cooperativa di risparmio, con l'obbiettivo di restituire alla popolazione le terre controllate dai latifondisti, in modo che essa potesse beneficiarne direttamente. Le attività sono poi proseguite e cresciute negli anni: un particolare impulso al commercio venne dato nel 1982 dalla FUNORSAL (Fundacion de Organizaciones Campesinas de Salinas), una fondazione creata per coordinare le varie organizzazioni. Il riscatto di Salinas si è fondato dunque sulle risorse proprie del territorio e sulla forza dei suoi abitanti, ed è così che si è arrivati ad un modello di sviluppo che fa perno sul valore della comunità.  Nel 2006 vari gruppi di produttori e agricoltori si sono riuniti nella cooperativa del Gruppo Salinas, che conta al suo interno sei organizzazioni impegnate nella produzione e nel commercio di prodotti tipici, oltre che nel turismo responsabile – che porta i turisti a scoprire il vero volto dell'Ecuador – e in attività sociali. Considerate le significative variazioni di altitudine dei territori interessati, le varie comunità del Gruppo Salinas lavorano in climi e ambienti molto diversi tra loro, da cui conseguentemente escono prodotti dei più vari: fondamentalmente si tratta di prodotti alimentari, a cominciare dai formaggi e dagli insaccati che vengono venduti localmente, per continuare con infusi, torroni, oli essenziali, funghi secchi, zucchero, confetture, caffè e cacao, che vengono esportati all'estero. L'Italia è uno dei primi compratori del marchio Salinerito, simbolo di prodotti di qualità e soprattutto etici.
  In aggiunta ai prodotti alimentari, molto importante è poi la produzione di filati e vestiario lavorato artigianalmente, come i caratteristici poncho di alpaca, e poi maglioni, sciarpe, cappelli, e così via. Ad esempio del valore sociale del modello di sviluppo qui applicato si può portare la Asociación de Desarrollo Social de Artesanas  Texal , una comunità di donne, quasi tutte analfabete, creatasi nel 1976: queste donne non avevano mai avuto un'occupazione, ma con il loro impegno, unito a dei corsi di formazione ad hoc, hanno potuto sviluppare una loro professionalità. Le loro creazioni, abiti e accessori realizzati con materiali naturali e tecniche tradizionali, sono prodotti di qualità esportati con successo all'estero.  A Salinas valgono i principi dell'economia solidale, i ricavi delle vendite vengono reinvestiti nelle cooperative stesse e utilizzati per progetti a carattere sociale. La crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione procedono di pari passo: il coinvolgimento diretto nel lavoro e nei benefici da questo derivati fa sì che gli abitanti si sentano cittadini attivi e responsabili, parte viva della propria comunità.
Guardando alla quantità di festival, fiere, sagre e celebrazioni assortite che hanno luogo ogni anno in Sudafrica una cosa appare subito chiara: i Sudafricani sanno come divertirsi. Praticamente ogni centro urbano ha la sua carrellata di eventi distribuiti nel corso dell'anno, feste e sagre che comprendono rappresentazioni e spettacoli pittoreschi e variegati. Un ruolo di primo piano in queste celebrazioni spetta al cibo e, in misura forse anche maggiore, alla musica.
Una delle manifestazioni più famose della nazione è, a ragione, il National Arts Festival (NAF) che ha luogo nella città universitaria di Grahamstown. Per dare un'idea del peso della manifestazione, basterà dire che è la più importante occasione di celebrazione delle arti dell'intero continente. Il programma del festival, organizzato con cadenza annuaria a cavallo tra giugno e luglio, include infatti una grande varietà di espressioni artistiche, a cominciare dalla musica, con il jazz a farla da padrone, per passare poi al teatro nelle sue varie declinazioni, al cinema, al balletto e al cabaret, alle mostre d'arte e dell'artigianato, e finire poi con una serie di attività accessorie quali workshop, tour della città e lezioni, più una sezione interamente dedicata ai bambini. Grazie all'ampia offerta di attività più o meno legate al mondo dell'arte, durante le 11 giornate del festival la piccola città universitaria viene invasa da visitatori e artisti provenienti da ogni parte del mondo.

Ciò che rende così speciale l'NAF è probabilmente il peculiare clima di libertà e fervore culturale che qui si respira. Nel corso della storia il festival ha sostenuto l'importante ruolo di roccaforte del pensiero libero, grazie ad una politica di inclusività (il festival è sempre stato aperto a chiunque a prescindere da razza, sesso, religione, ecc.) e di  censura zero  sulle opere presentate che questo ha perseguito. Si capisce quindi facilmente come in periodi di tensione politica, quali furono gli anni dell'apartheid, esso costituì un focolaio di proteste e discussioni politiche e come ancora oggi esso sia una culla per le avanguardie artistiche e un'incubatrice di nuove idee.

Dal 1974, anno inaugurale, il festival è stato regolarmente celebrato ogni anno, fatta eccezione per il 1975, e da allora ha continuato a crescere e svilupparsi, ospitando sempre più artisti e performance. La manifestazione ha inoltre cercato di ampliare ulteriormente il suo impatto puntando a darsi anche un valore sociale, ad esempio mettendo in contatto i giovani manager artistici con professionisti che potessero istruirli, oppure istituendo corsi speciali per ragazzi provenienti da realtà disagiate o ancora con il volontariato degli artisti in strutture quali ospedali, cliniche e case di riposo.
Il festival avrà luogo quest'anno dal 30 giugno al 10 luglio; sul
sito ufficiale, in inglese, si possono trovare ulteriori informazioni su questa importante manifestazione, inclusa una dettagliata sezione Travel & Stay.
*Tutte le immagini nell'articolo provengono dal sito ufficialehttps://www.nationalartsfestival.co.za/
L Isola di Moyenne è un minuscolo paradiso all interno del Parco Marino di Sainte Anne, nelle Seychelles, 6 km ad est di Mahé, la più grande delle isole dell arcipelago. L isola ha una storia particolare ed interessante, che sembra uscita da un romanzo (anzi, più romanzi!) d avventura.
Nel 1962 infatti, un signore inglese di nome Brendan Grimshaw, comprò l isoletta per 8000 sterline. All epoca dell acquisto Moyenne Island era deserta, senza acqua potabile e completamente ricoperta da una vegetazione fittissima. Novello Robinson Crusoe, Grimshaw iniziò con l aprire dei sentieri nella vegetazione per rendere possibile lo spostarsi all interno dell isola. Con l aiuto di un collaboratore nativo delle Seychelles, Rene Antoine Lafortune (il Venerdì della situazione), Grimshaw piantò circa 16000 alberi, introducendo piante di mango, papaia e numerose altre specie di alberi da frutta e palme, e reintrodusse le tartarughe di terra.Dopo vari tentativi riuscì a portare sull isola anche alcune specie di uccelli - inizialmente non v era traccia di volatili - nutrendoli, e oggi Moyenne è talmente preziosa dal punto di vista naturalistico da meritare di essere riconosciuta come parco autonomo, il Moyenne Island National Park, sebbene l isola si trovi appunto all interno del Sainte Anne.

Quando Grimshaw comprò l isola questo non era certo il suo scopo, e le migliorie apportate a Moyenne non dipendevano da altro se non che dalla necessità di rendere l isola abitabile per egli stesso, eppure Grimshaw si è  accidentalmente  trovato a custodire un tesoro naturalistico, tesoro che si è poi sempre rifiutato di vendere al migliore offerente nonostante le numerose e generose offerte ricevute. Come il protagonista del romanzo di Dafoe, Grimshaw, lontano dalla patria  civilizzata , si è costruito per se stesso una nuova casa, grazie al duro lavoro e allo spirito d iniziativa, e nella preservazione del suo angolo di paradiso ha trovato uno scopo di vita; prima di morire all età di 87 anni, alla domanda se si fosse mai sentito solo, l inglese rispose:  Sì una volta, quando vivevo in un monolocale a Londra. Quando vivevo lì mi ero triste, ma qui non lo sono .
Ma Moyenne non è solo la casa di un Crusoe post-moderno, ma anche di veri e propri pirati del XVII secolo! Circolano infatti numerose storie e leggende sul fatto che l isola fosse un covo di pirati, teoria a dimostrazione della quale vi sarebbero le tombe presenti sull isola, che si crede appartengano a dei pirati. Dalle storie in circolazione spicca il nome del pirata Olivier Le Vasseur, che avrebbe costantemente depredato le imbarcazioni che navigavano l Oceano Indiano negli anni ‘20 del XVIII secolo, per finire poi impiccato nel Luglio del 1730. In puro stile  piratesco  prima di morire Le Vasseur avrebbe gettato tra la folla dei documenti contenenti una serie di indizi su come trovare il suo tesoro, un bottino ricchissimo di cui avrebbe fatto parte anche la Fiery Cross of Goa, un tesoro di cui, se veramente esistesse, sarebbe difficile calcolare il valore, se davvero come dicono le storie essa era interamente tempestata di diamanti, rubini e smeraldi, e talmente grande e pesante da richiedere la collaborazione di tre uomini per trasportarla.

Con un esca così ghiotta non stupisce che ci siano persone che hanno bruciato i migliori anni della loro vita e tutti i loro averi in una ricerca che fino ad oggi non ha dato però alcun frutto. Sempre secondo la leggenda, quando era sul punto di essere impiccato, gettando l involto con gli indizi, il pirata dichiarò profeticamente  Che trovi pure il mio tesoro, colui che è in grado!  e a tre secoli di distanza nessuno lo è ancora stato.
Quando si supera il confine del Queensland, il tempo inizia a scorrere più lentamente e il paesaggio assume un aspetto più languido. Questo Stato immenso offre una varietà stupefacente di paesaggi e habitat: dalle spiagge della Sunshine Coast alle foreste pluviali di Daintree, dalla Grande Barriera Corallina all'interno, dove si estendono le distese deserte e assolate dell'outback, immensi spazi incontaminati a perdita d'occhio. Il soprannome del Queensland è "Sunshine State" perchè ad eccezione della stagione umida gode di un clima invidiabile con ben 300 giorni di sole all'anno e un cielo quasi sempre sereno. Cibo: cicale di mare, scampi e pesce barramundi, Rockhampton Steak (bistecca di manzo), manghi, banane, noci di macadamia Bevande: Boccale di birra Four X, rum Bundaberg, vini Granite Belt Letture: Vola Via di David Malouf, It's Raining in Mango di Thea Astley, Praise di Andrew McGahan, E morì con un falafel in mano di John Birmingham Film: Mr Crocodile Dundee (1986), Getting'Square, La Sottile linea rossa (1998), Scooby Doo (2002), Ore 10: calma piatta (1989) Da evitare: Surfers Paradise durante la festa studentesca di Schoolies Week, i rospi della canna da zucchero, le scottature, le meduse Soprannome degli abitanti: Cane Toads (rospi giganti della canna da zucchero), Banana Benders (piegatori di banane) Dove nuotare: al McKenzie Lake e al Wabby Lake a Fraser Island, alle spiagge di Peregian Beach e Noosa Beach sulla Sunshine Coast, a Great Keppel Island e presso la Grande Barriera Corallina Manifestazioni curiose: Festa del salvamento a Kynuna (nell'outback), ad aprile, e le Cockroach Races, gare di scarafaggi, presso lo Story Bridge Hotel di Brisbane in occasione dell'Australia Day (26 gennaio), Festa Nazionale della Birra di Brisbane a metà settembre Attrazioni turistiche stravaganti: il Big Pineapple ossia il "grande ananas" seguiti dal Big Mango (grande mango) e dal Big Gumboot (grande stivale)
L appellativo moderno che oggi diamo ad una delle più sensazionali meraviglie oggi ammirabili nel mondo intero risale presumibilmente al XV Secolo, periodo durante il quale una drastica mutazione del culto religioso introdotta dagli siamesi, nuovi dominatori dell area, avvicinò per la prima volta i Khmer al Buddismo Theravada. Il termine  Wat , infatti, il lingua siamese significa Monastero (Buddista). Degli innumerevoli templi che gli antichi Khmer laboriosamente edificarono in un arco di tempo di oltre sei secoli a cavallo tra il primo e il secondo millennio, l Angkor Wat è oggi l unico ancora consacrato e ad essere utilizzato quale luogo di culto, appunto del Buddismo Theravada. Ogni anno viene visitato non solo da milioni di turisti provenienti da tutto il mondo ma anche da una nutrita schiera di pellegrini che considerano l Angkor Wat uno dei luoghi più sacri del Sud-est Asiatico. Il suo nome originario era però Vrah Vishnuloka (il  Paradiso di Vishnu ) e rappresentava la massima maturazione artistica e spirituale del tardo periodo Induista, principalmente incentrato sul culto di Vishnu che negli animi dei Re Khmer progressivamente rimpiazza il ruolo principale precedente occupato da Shiva. Meraviglia per antonomasia di Angkor, è il luogo che fin dalla sua riscoperta ha scatenato la fantasia e il desiderio del mondo occidentale. Edificato da Suryavarman II nella prima metà del XII secolo, il Vrah Vishnuoka era studiato per rappresentare l intero macrocosmo Induista, con il monte Meru al centro contornato da varie catene montuose (i successivi livelli del tempio ognuno racchiuso da possenti mura) e immensi oceani (rappresentati dal gigantesco canale largo ben 200mt che circonda l intero tempio!). La sua estensione totale è di circa 1500*1300 metri costituendo così l edificio religioso più grande del mondo! Le sculture a bassorilievo realizzate all Angkor Wat includono oltre 2000  Apsaras  (ninfe danzanti),  Devata  (Dee) e  Dvarapala  (guardiani) ognuna delle quali di eccezionale fattura. Ma le sculture più sensazionali si trovano sulle mura della terza cinta, interamente scolpite lungo tutta la loro estensione (oltre 500 mt!) a rappresentare vari episodi del Mahabarata, del Ramayana e di altre epiche leggende collegabili alle discese sulla Terra ( Avatar ) del Dio Vishnu. Di incommensurabile bellezza sono ad esempio i due pannelli, entrambi ad unico registro, che si trovano sul lato ovest e che rappresentano le battaglie conclusive delle due epopee induiste (la battaglia di Lanka per il Ramayana, nel pannello settentrionale, e la battaglia di Kuruksetra per il Mahabarata, nel pannello meridionale). Passando al lato sud troviamo quindi un lunghissimo bassorilievo, realizzato inizialmente su due registri, che sfilando da sinistra a destra si riduce progressivamente ad un solo, grande, registro. Rappresenta una parata militare incentrata sulla figura del Re Suryavarman che in una incisione posta al suo fianco viene chiamato con il suo nome postumo: Paramavishnuloka (colui che è entrato nel Paradiso di Vishnu). Questo appellativo ha portato gli studiosi a ritenere che l Angkor Wat venne edificato quale mausoleo del Re e che per questo motivo il suo orientalmento è, caso unico ad Angkor, verso Ovest. Esistono anche altre supposizioni di carattere religioso relative a questo strano e originale orientamento e ancora oggi non si è giunti ad una motivazione universalmente riconosciuta. Non è altresì certo che l Angkor Wat sia realmente la tomba di Suryavarman. Proseguendo lungo le mura si incontra uno splendido pannello dedicato a Yama, signore degli Inferi, che con il suo bastone giudica i morti indicando la direzione del Parasido oppure dell Inferno. L inferno è rappresentato nel registro inferiore con notevole dovizia di dettagli e particolari sulle innumerevoli forme di tortura qui impartite. Il pannello più celebre e con le sculture più raffinate si trova però sul lato est e rappresenta la leggenda del  rimescolamento dell oceano di latte . Si sviluppa su 3 differenti registri che oppongono tra loro il disordine ed il caos dell oceano primordiale, l operosità degli Dei e dei Demoni alla ricerca dell Amrita (l elisir di lunga vita), ed infine l ordine, la regolarità e la bellezza celestiale del registro superiore che rappresenta il risultato del rimescolamento che fuoriesce dall oceano: Lakhsmi (la Dea moglie di Vishnu), Airavata (l elefante a tre teste che sarà la cavalcatura del Dio Indra), il cavallo bianco a cinque teste Uchaisravas, il gioiello Kaustubha ed infine migliaia di graziose Apsaras, ninfe danzanti della mitologia induista. Una visita completa ed esaustiva dell Angkor Wat richiede almeno mezza giornata. Al pomeriggio la luce è ideale per scattare foto memorabili. La foto di apertura dell'articolo è di Alessandra Rossi.
A come Aborigeni – Custodi della terra australe, vivono in pace da 40.000 anni con le loro facce pasoliniane e la loro cosmogonia fantastica. I bianchi arrivati qui li consideravano inferiori perché non conoscevano la ruota. Ma provateci voi, a spostarvi per il deserto su un carro trainato da canguri… B come Barna Mia – Uno dei segreti meglio custoditi del WA, un fazzoletto di foresta primigenia assediato da ettari di terreni agricoli, un alfabeto di alberi che racconta una meravigliosa storia di evoluzione. E la possibilità di vedere molti dei più rari e straordinari marsupiali di questa terra. B (2) come Birra – Prosperano le microbirrerie, nel mondo sottosopra, e molte sono di assoluto livello. Per gli appassionati (e a giudicare dalle pance, qui in WA ce n'è un bel po'), una vera goduria! C come Cielo – Qui, il cielo è uno sterminato pascolo di nuvole. D come Delfini – A Monkey Mia sciabordano inopinatamente a riva di mare, liberi, in pochi centimetri d'acqua, dove una carezza trattenuta è gesto di rispetto. Un'esperienza spiazzante, unica nel suo genere, anche se personalmente li ho trovati più emozionanti in mare aperto. E come Echidna – F come G come Guida a sinistra – Un po'di fatica si fa, all'inizio, e magari nel traffico di Perth non è proprio intuitiva. Ma basta lasciarsi alle spalle la città e il traffico si dirada fino ad dissolversi completamente procedendo verso nord. E la guida a sinistra cessa di essere un problema. G come Galah – Stravaganti pappagalli in livrea rosa confetto che accompagneranno il vostro viaggio con un incessante chiacchiericcio. Ce n'è talmente tanti che alla fine ti dimentichi quanto siano belli... H come Hotel – Ma anche come B&B, lodge, ostelli, etc. Poca roba qui nel WA, gli alloggi da questa parte del mondo sono pochi, costosi e/o spesso pieni. Prenotate in anticipo, siate pronti ad adattarvi e fate ricorso all'arte di arrangiarvi. Se invece siete adepti della setta dei campeggiatori/camperisti, le cose vanno molto meglio: i sandgropers (v.) sono anime itineranti e si sono costruiti un paese a loro immagine e somiglianza. I come Inglese – Non parlate inglese? Nessun problema, neanche i sandgropers (v.). Armatevi di pazienza e senso dell'umorismo, tirate fuori le mani dalle tasche e iniziate a gesticolare: siamo pur sempre italiani, no? K come Kalbarri, Karijini, Kakadu, Kimberly… – La Terra Primigenia per eccellenza, da sorvolare camminare guadare fino allo sfinimento. J come L come Leeuwin Estate – M come Margaret River – La regione vinicola del WA è assolutamente magnifica. Pappagalli, eucalipti e uno shiraz sopraffino. N come Ningaloo Reef – Ce ne vuole, per arrivare fin qua. Ma se siete venuti in Western Australia, e avete avuto la pazienza e la caparbietà di guidare fino a Coral Bay e non vi siete fatti scoraggiare dall'infimità del luogo, fate un ultimo, decisivo sforzo: salite su una barca. Rovesciate la prospettiva, e scoprirete un mare che non ha nulla da invidiare alle Maldive e soprattutto una fauna con pochi uguali al mondo. Squali balena, delfini, tartarughe, dugonghi, balene, mante, razze, squali, pesci tropicali e una barriera a tratti straordinaria, il tutto a portata di snorkelling. Ah, dimenticavo la cosa forse più importante: sarete (quasi) soli, quassù. O come Orari (dei negozi) – Dalle 10 di mattina alle 5 di pomeriggio. Il che sarebbe un problema, se ci fossero davvero dei negozi e qualcosa da comprare. Tranquilli: non c'è nulla di tutto questo, in WA… O (2) come Off the beaten track – Se siete alla ricerca di sentieri poco battuti, meraviglie sconosciute dagli stessi locali, folgorazioni inattese, sappiate che qui ci sono alcuni dei luoghi più belli e meno frequentati del pianeta. P come Previsioni del tempo – Da inaffidabili a completamente inaffidabili, con rovesci temporaleschi in giornate assolate e concezione surrealista della nuvolosità, soprattutto lungo la costa. Q come Quando andare – Prima possibile. OK, scherzi a parte, tutte le stagioni sono buone ma con qualche distinguo. Se intendete salire verso nord, e soprattutto verso il Kimberley e il Kakadu NP, è preferibile la nostra estate; per la zona a sud, il nostro inverno corrisponde alla piena estate australe e il tempo sarà magnifico. Primavera ed autunno sono eccellenti compromessi in entrambe le aree. R come Roadhouse – S come Sandgropers – Abitanti del WA. Esseri umani piuttosto rudimentali (soprattutto al nord), schietti, eminentemente pratici e vagamente omerici (nel senso di Homer Simpson). Si spostano su macchine enormi, spesso in compagnia di roulotte, camper e motoscafi. Parlano una lingua tutta loro ma a differenza di altri non tentano di spacciarla per inglese (v.). T come Telstra – La principale compagnia telefonica qui in WA, quella che garantisce la migliore copertura e, a detta dei locali, la peggiore assistenza. Ma basta comprare una scheda e un mese (30 dollari) di credito, e potrete parlare, inviare SMS e navigare in Internet a volontà. T (2) come Tree Top Walk – U come Unesco – Ha recentemente riconosciuto il Ningaloo Reef (v.) come World Heritage Site. Ma se avrete la fortuna di girare un po'il WA, la domanda che vi porrete più spesso sarà, e questo perché non è patrimonio dell'umanità? V come Vino Y come W come Whale Watching – Assolutamente fantastico lungo tutta la costa, a Ningaloo abbiamo visto nuotare e spanciarsi centinaia di megattere. Uno spettacolo indimenticabile, un'allegria del cuore. W come Windawarri Lodge (Tom Price) – Se volete visitare il Karijini, dovrete alloggiare al Windawarri Lodge, la struttura ricettiva della società mineraria Rio Tinto dove, per un prezzo che a Parigi che vi garantirebbe una suite al Ritz, avrete diritto ad una camera monacale con un abbozzo di bagno, ad essere svegliati ogni mattina alle tre e mezzo da un corteo di caterpillar e a mangiare in compagnia delle maestranze locali in una mensa aziendale che la sera apre alle 4 e chiude alle 8.30, dove è vietato entrare con scarponi e braccia nude e in cui i cibi sono contrassegnati da un cartellino con il relativo apporto nutrizionale. Detto questo, il Karijini (v.) è una meraviglia assoluta. Z come di Antonello Bacci
Una pinna sorge dall'acqua e un brivido passa lungo la schiena. Il grande squalo bianco è stato da sempre descritto nella cultura popolare come un assassino ed è considerato il più temibile dei predatori marini. Nella cinematografia passata e recente, lo squalo è ritratto come l icona del terrore. Come dimenticare, del resto, il film "Lo squalo"? Il film, diretto magistralmente da Spielberg non ha certamente reso giustizia allo squalo bianco e più in generale a tutti i suoi parenti vicini e lontani, come ha ammesso anni dopo lo stesso regista. Anzi ha confuso e innescato una serie di comportamenti irrazionali a danno unicamente degli squali. I pescatori all epoca reagirono con una aggressività insensata, soprattutto dopo alcuni attacchi che si verificarono lungo le coste occidentali americane. Diedero il via ad una caccia sfrenata, catturando centinaia di esemplari ed è proporio per questo motivo che il loro numero sta diminuendo così tanto che, essere in grado di avere un incontro con ravvicinato con il grande squalo bianco sta diventando ormai un privilegio. Il paradiso per eccellenza per osservare lo squalo bianco è il sud Africa. Lo shark-watching in quest area si effettua principalmente lungo le coste da Sodwana Bay fino alla regione del Capo. Non è necessario essere in possesso di certificazione dive poichè la gabbia che vi separa dai grandi bianchi è situata a pochi metri sotto la superficie dell'acqua. Preparatevi per l'esperienza più emozionate della vostra vita.
Vietnam e Cambogia hanno plasmato l immaginario dei viaggiatori occidentali fin dai tempi della colonizzazione francese dell Indocina, che possiamo collocare temporalmente tra il 1858, epoca del primo intervento militare nella regione, e i trattati di Ginevra del 1954 che posero fine al dominio francese in loco. Nella letteratura coloniale, le commistioni tra natura e cultura, e la fascinazione esercitata dalle rovine archeologiche ‘riscoperte dagli esploratori coloniali – ma mai veramente abbandonate dalle popolazioni locali – hanno contribuito a costruire un immagine di cesura tra un passato maestoso rappresentato dalle vestigia architettoniche degli antichi templi, le città abbandonate e una malintesa primitività delle popolazioni contemporanee, viste non come eredi di quelle civiltà, ma come una sorta di involuzione socioculturale che con quel passato non ha nulla in comune. A questo immaginario, che è andato consolidandosi per tutta la prima metà del Novecento, si sono venuti a sovrapporre i conflitti e i genocidi che hanno interessato la stessa area nella seconda metà del Novecento, e che hanno contribuito ad acuire ulteriormente il senso di cesura tra passato e presente. A distanza di un secolo, cosa possiamo allora aspettarci da un viaggio che attraversi questi due paesi del Sud-est asiatico? Mi sento di incoraggiare coloro che visitano Cambogia e Vietnam in una direzione opposta a quella degli immaginari tradizionali, e che consenta di vedere, in tutta la loro complessità e suggestività, quanto esista un filo rosso che colleghi il passato al presente lungo un continuum di spazi e di incontri, oltre che di tempi. L influsso dell induismo sull intera penisola indocinese ha avuto come principale esito culturale, sul piano sociopolitico, l incorporazione della divinizzazione della figura del Monarca (rajadharma), testimoniato anche dall architettura presente nei templi pre-angkoriani ed angkoriani, che è tuttora parte del sentire comune dei cambogiani nei confronti del re. La regione ha visto inoltre la presenza costante di Giappone e Cina, colossi che attualmente stanno contribuendo, forse più del processo di occidentalizzazione di cui tanto si è parlato negli ultimi anni, a modificare ulteriormente gli scenari geopolitici, culturali e turistici. di questi due paesi. Il crescente turismo sessuale – piaga di cui spesso si parla e che viene sovente imputata solo esclusivamente alla presenza di turisti occidentali che pure costituiscono una larga fetta di pubblico, in questo senso – e la presenza sempre più massiccia di casinò, soprattutto in Cambogia, sono indicatori di questa influenza economica e culturale. Vorrei sottolineare come anche la storia contemporanea abbia contribuito a delineare gli immaginari turistici di Vietnam e Cambogia. Se per il primo, la presenza di un mercato abbondante di souvenir legati alla guerra del Vietnam ha contribuito a creare itinerari che ripercorrono quanto ripreso a più riprese dalla cinematografia, in Cambogia a lungo si è venuto a creare un duplice immaginario fatto, da un lato, di passato imponente e di civiltà antiche completamente cancellate, e dall altro dal regime genocidario che ha decimato la popolazione negli anni Settanta. Ma si è trattato veramente di un momento rivoluzionario che ha cancellato il passato? A ben vedere, come ci ricorda Matilde Callari Galli (1997), i vertici dei Khmer Rossi, guidati da Saloth Sar (meglio noto con lo pseudonimo di Pol Pot), avevano di fatto ripreso una gestione del potere che molto riprendeva la gerarchia classica dei monarchi Khmer, a dimostrazione di quanto alla fine le ideologie politiche si fossero innestate su un patrimonio culturale di gestione del potere politico che era preesistente. Siamo certi che ulteriori spunti alla scoperta verranno dalle vostre esperienze personali, come è giusto che sia. Perché il viaggio, qualunque esso sia, è un esperienza prima di tutto soggettiva, e ogni sguardo che viene riportato a casa, è quello giusto. Federica Ferraris Antropologa del Turismo per Darwin Viaggi

Letture suggerite Matilde Callari Galli, In Cambogia. Pedagogia del totalitarismo, Roma, Meltemi, 1997. Tiziano Terzani, Un indovino mi disse. TEA, 2014 (1995).
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tel.: 064941161
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