Tanzania, Terzo Movimento. Di elefanti, baobab e altre cose per cui vale la pena vivere
Inesorabilmente sta volgendo al termine questa giornata nel Parco del Tarangire, tra poco salterò giù da questa Jeep e sarà per l ultima volta, domani, quando riprenderemo posto al suo interno sarà per recarci all aeroporto. L Africa sta per svanire dentro i miei occhi, al solo pensiero una fitta dolorosa mi prende allo stomaco, d istinto serro le dita intorno ai montanti del tettuccio sollevabile (Fungoa, lo chiamano da queste parti), quasi volessi lasciarvi la mia impronta, e mi sollevo più in alto che posso. Voglio riempirmi i polmoni, gli occhi, il cuore di questi ultimi momenti, di queste immagini, dei colori, dei profumi, della polvere che mi graffia il volto. Il Tarangire è un paradiso di vegetazione ed elefanti, a volte qualche giraffa, qualche antilope, l ormai familiare traffico di zebre e gnu, ma soprattutto, ovunque, elefanti e baobab. Giganti a confronto. Elefanti e baobab, a perdita d occhio. Solitari o in gruppo, i primi, sempre solitari gli altri, conficcati a testa in giù, con le loro radici al vento. I baobab mi fanno pensare a un urlo di dolore che si sprigiona dal centro della terra. Gli elefanti se ne nutrono, succhiando linfa dalla corteccia durante la stagione secca. I tronchi di questi giganteschi alberi recano il segno del passaggio dei pachidermi, ferite grandi come caverne, dove in passato i bracconieri trovavano rifugio per tendere agguati proprio agli elefanti. Ora, mi dice Nuhu, la vita per i bracconieri si è fatta un po più dura, grazie anche al blocco del mercato dell avorio. Voglio crederci, voglio sperare che questi maestosi animali non debbano più temere l uomo a causa delle loro magnifiche zanne. Emily imbocca una stradina tra le acacie e mi indica un punto scuro tra la vegetazione, stanotte dormiremo lì. Per raggiungerlo attraversiamo senza difficoltà il letto di un fiume in secca, il Tarangire, dal quale l intero parco prende il nome. Ora sembra una grande strada sterrata, ma durante la stagione delle piogge, quando è impossibile guadarlo con la Jeep, per giungere fino al River Camp, ultima meta del nostro viaggio, ci si carica i bagagli sulle spalle e si attraversa un lungo ponte di legno e corde che possiamo ammirare sospeso sopra le nostre teste. Il River Camp è un posto di una bellezza struggente, le poche tende (una decina al massimo) sono disposte a cerchio intorno al punto di ristoro (hoteli in lingua swahili, chiamarlo ristorante non rende giustizia alla suggestione del posto), interamente costruito intorno a un tronco di baobab. Ad accoglierci troviamo una montagna d ebano sorridente e dalla voce profonda e intensa. Potrebbe interpretare il ruolo dell eroe buono in un libro di Stephen King. Ci offre da bere e ci mette a conoscenza di alcune cose che proprio non dobbiamo dimenticare. Ci indica la nostra tenda e il piccolo patio sul davanti, protetto da una staccionata di legno, se vogliamo muoverci da lì, ci dice, dobbiamo chiamare il Masai. Non è salutare andarsene a spasso per il Tarangire River Camp senza guida, gli animali potrebbero essere in agguato ovunque, qui siamo nelle loro terra. Tutto questo aggiunge un fremito in più al nostro viaggio, alla nostra ultima notte. La sera, per la prima volta da quando ci conosciamo, ceniamo insieme, nelle altre occasioni Nuhu e Emily erano andati a mangiare in qualche villaggio vicino, qui non ci sono villaggi. Per la prima volta, lontani dalla Jeep e da qualcosa di universale che ti attanaglia quando sei tra gli animali, possiamo parlare di noi, delle nostre piccole vite private. Emily ha due figli e una moglie dai quali non vede l ora di tornare, domani, dopo aver lasciato noi in aeroporto, tornerà a casa e dormirà per tre settimane, ci dice ridendo, prima di riprendere il lavoro. Anche Nuhu, tornerà a casa, ma non sa quando riprenderà il lavoro - quando lo richiameranno, dice - e non ha una moglie e neanche una ragazza, è molto giovane ancora. Però spera di sposarsi presto, gli piacerebbe avere una moglie e dei figli, un paio non di più, anche in Africa, aggiunge, stiamo imparando a fare pochi figli. Mi confessa che gli piacerebbe venire in Italia, che non è mai uscito dal suo villaggio, che non riesce a farsi un idea come possa essere Roma. Io provo a sostituire le automobili agli gnu e alle zebre, e magari dire Roma è così, ma rinuncio. Come posso descrivergli una città? Lo invito a venire a Roma, come ne avrà l occasione, preoccupati solo del biglietto aereo, aggiunge Nunzia, del resto non ti preoccupare, ti ospitiamo noi, ne saremo felici. Siamo sinceri, così come sincero è il suo sorriso di riconoscenza, ma tutti sappiamo che probabilmente quella sarà l ultima sera che passeremo insieme. Mentre facciamo colazione, la mattina del giorno dopo, un piccolo gruppo di gnu e zebre attraversa il letto del fiume sotto di noi. Non riesco neanche a immaginare la meraviglia di questo posto durante la stagione delle piogge. Salutiamo la montagna d ebano complimentandoci con lui, questo è un paradiso, diciamo, lui ride felice, poi chiama il Masai per farci accompagnare alla casa. Un ultima frase è per Bruno, gli dice che lui ha un amico italiano che si chiama così, Bruno. Un sacerdote, un missionario. Per raggiungere la strada dell aeroporto, attraversiamo di nuovo il parco, per l ultima volta Emily frena la sua Jeep e ci indica dove guardare: alla nostra sinistra è comparso l elefante più grosso che io abbia mai visto. E un maschio nero gigantesco, se gli elefanti raggiungono al massimo 6 tonnellate di peso, penso, questo le pesa tutte. Ci guarda per un po , quindi decide che lo abbiamo stancato e muove minacciosamente verso di noi, Emily avvia in tutta fretta la Jeep e riparte, non è il caso di aspettare la sua carica. Per molto tempo questa sarà l ultima immagine che mi porterò dietro dell Africa, finché con il trascorrere dei mesi non tornerà tutto a galla, come un relitto pieno di tesori che fluttuando torna lentamente alla superficie. Marco Graffi Fine - 3/3