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Leggere per Conoscere la Tanzania

Ebano di Ryszard Kapuscinski (ed. Feltrinelli).
Giornalista e fotografo, scrittore di Afriche e viaggiatore di quelli buoni, rigattiere di storie ordinarie e non, Kapuscinski è uno che, per dirla con De André, nella vita ci ha messo la faccia. Spulciando questo libro troverete, affastellati uno accanto all'altro, racconti di attese interminabili e pazienti, l'ascesa e la caduta di Idi Amin, dittatore, il terrore dell'oscurità, testimonianze di colpi di stato, il senso del clan... Tutti insieme, restituiscono meravigliosamente il senso di precarietà e la fatica di vivere di uomini e donne d'Africa. Poi, a pagina 144, una sconvolgente Lezione sul Ruanda, impietoso ritratto della cattiva coscienza di noi occidentali: 14 pagine che da sole valgono tutto il libro e raccontano, senza enfasi né retorica alcuna, l'agghiacciante genocidio di un popolo su cui, forse, non ci è stata raccontata esattamente tutta la verità.
Antonello Bacci
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    Dalle Coste dell'Oceano al Lago Tanganyika

    Una grande avventura che ricalca gli storici itinerari dei grandi esploratori che nell 800 sbarcarono nell'Africa Meridionale, pronti per contribuire alla mappatura di quelle regioni che fino a quel momento erano rimaste inesplorate. Queste proposte di viaggio iniziano dalla costa dell Oceano Indiano e attraversano i grandi parchi del sud della Tanzania fino a raggiungere il Lago Tanganyika, scoperto da Richard Burton e John Speke nel 1858 mentre erano alla ricerca delle sorgenti del Nilo. La preparazione dell'itinerario per un viaggio che comprenda questi o solo alcuni dei parchi presentati in questa pagina è su richiesta.

    RUAHA NATIONAL PARK
    Ruaha, il secondo più grande parco della Tanzania, si trova nella parte meridionale del paese. Questa terra assetata, caratterizzata da corsi d acqua sabbiosi, baobab millenari e boschi fitti, è arida anche da gennaio a maggio quando la pioggia porta una profusione di fiori e verde. Eppure è innegabilmente suggestivo, con una voglia quasi irresistibile di tornare ancora e ancora. Il cuore del parco è il Great Ruaha River, che scorre giù dalle zone umide di Usangu e percorre 160 chilometri fino a snodarsi lungo il bordo sud-orientale del parco. Cosparso di massi e costellato di ippopotami, i suoi argini di sabbia sono spesso raffigurati con un coccodrillo mentre prende il sole o un elefante a bordo dell'acqua. Durante la stagione secca, le poche pozze rimaste nel letto del fiume sono come una calamita per una quantità impressionante di animali selvatici. Nel Ruaha c è la più grande popolazione di elefanti del paese e una quantità considerevole di bufali, zebre, giraffe, numerose specie di antilopi. I leoni e le iene sono abbondanti e generalmente sono facilmente avvistabili. Il periodo migliore per visitare il Parco va da Giugno a Novembre.

    KATAVI NATIONAL PARK
    Katavi, lo spirito cacciatore a cui è stato dedicato il terzo parco più grande della Tanzania, sembra proteggere bene il suo territorio. Le pianure alluvionali di Katavi pullulano di mandrie di bufali e l enorme concentrazione di ippopotami riempie i letti dei fiumi, le antilopi vagano per i boschi come gli elefanti nella savana … sorprendentemente c'è solo un filo di visitatori. La maggior parte delle attività nel parco si svolge sulle vaste pianure fuori dal fiume Katuma, soprattutto vicino ai laghi stagionali di Chada e Katavi. La stagione ideale è normalmente da Luglio a Ottobre, quando la pianura è secca e un gran numero di animali si dirige verso le poche pozze rimaste. Trovare resti di diverse centinaia di ippopotami che lottano fra loro per il poco spazio nei laghi è semplicissimo. Oltre a questo ci sono anche 1000 mandrie di bufali; la probabilità di vedere leoni in azione contro zebre e giraffe è ottima. Quando il periodo delle piogge breve inizierà, a Novembre, la fauna selvatica comincia a disperdersi. Tuttavia c'è ancora una grande varietà di animali che resta sulle pianure, come gli elefanti che si contano a centinaia. La savana, interrotta solo da un isolato appezzamento di palme, alberi di tamarindo e fichi, è sempre adatta per il birdwatching. Durante la stagione delle grandi piogge, gran parte del parco è inaccessibile e i campi sono chiusi. Il Parco di Katavi non è una destinazione per tutti, soprattutto se si raggiunge via terra : può sembrare una spedizione. E adatto a chi possiede un reale spirito di adattamento: animali nei campi sono un evento frequente, come zanzare e altri insetti. La rete stradale assomiglia, per la maggior parte, a tracce indistinguibili. Le dimensioni enormi del parco, la natura libera e l alta concentrazioni di fauna selvatica lo rendono comunque una delle mete più ambite per il safari, oggi.  Il periodo migliore per visitare questo Parco va da Luglio ad Ottobre.

    LAKE TANGANYIKA
    Questa lunga e profonda lingua blu che abbraccia le pareti lussureggianti è lo zaffiro brillante nella corona occidentale della Tanzania. E un posto quasi magico, specialmente se lo raggiungete via terra : montagne verdi che si tuffano nell acqua trasparente del lago che ospita oltre 500 specie di pesci, il secondo lago più profondo al mondo e con una delle biodiversità più ricche. Lo sfondo delle montagne del Congo in lontananza arricchiscono il tramonto ogni sera. Una volta al buio centinaia di lanterne si accendono in mare aperto : sono i pescatori locali al lavoro che attirano nelle loro reti branchi di piccoli pesci dagaa. Ancora di salvezza per i numerosi villaggi isolati del Lago Tanganyika è la storica MV Liemba, traghetto passeggeri e merci che costeggia la riva orientale del lago ed opera tra i porti di Kigoma (Tanzania) e Mpulungu (Zambia) con numerose fermate per far salire e scendere i passeggeri, tra cui Ujiji dove Stanley, inviato dal quotidiano New York Herald per cercare Livingstone, pronunciò nel 1871 la frase ormai celebre "Dr . Livingstone, I presume? ". La stagione secca è da Maggio a Settembre ma è un posto piacevole anche durante le piccole pioggie di Ottobre e Novembre.

    MAHALE MOUNTAINS NATIONAL PARK
    Oltre agli scimpanzé, una delle principali caratteristiche, questo parco è visitato anche per le acque cristalline del lago e le montagne verdissime. Si può tranquillamente dire che Mahale è una delle più belle aeree protette della Tanzania e contende al Parco Nazionale di Gombe (nel nord della Tanzania) il primato del continente africano per gli incontri ravvicinati con i nostri cugini primati. Con un area di 1613 chilometri quadrati, inizialmente Mahale è stato dichiarato Parco Nazionale per proteggere la sua popolazione di primati, che è attualmente stimata intorno ai 1000 esemplari. Eppure, a differenza di Gombe dove gli scimpanzé sono quasi l unica attrattiva, qui le esperienze più emozionanti hanno a che fare con il meraviglioso scenario del lago: oltre agli avvistamenti, è possibile nuotare, effettuare delle crociere o semplicemente rilassarsi sulla spiaggia ammirando il paesaggio. Come anche a Gombe, gli scimpanzé sono stati soggetti di ricerca per oltre 4 decenni e circa 70 individui si sono talmente abituati alla comunità Mimikere che sono la più grande attrattiva turistica. Tuttavia la topografia del parco, molto grande e ricco di pendii e montagne, rende difficile l avvistamento dei famosi primati e bisogna essere preparati al fango e alle punture di insetti. Inoltre non è consentito avvicinarsi oltre 10 metri dagli scimpanzé e il contatto è limitato ad un ora. Questa regione può essere visitata durante tutto l anno, la stagione secca è da Maggio a Settembre ed è un periodo perfetto per le tracce degli scimpanzé. E un posto piacevole anche durante le piccole piogge di Ottobre e Novembre.

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      I Maya, il mistero di una civiltà perduta

      Sergio Paramentola

      Visitare lo stato messicano dello Yucatán è come tuffarsi in un mare misterioso. Il mistero, naturalmente, è quello della civiltà Maya che si sviluppò lì e nelle regioni contigue dell America centrale (in Chiapas, Guatemala, Belize, Honduras, El Salvador) raggiungendo la sua età classica tra il 250 e il 900 dell era cristiana. Ciò che sorprende sono le loro impressionanti realizzazioni, ma anche l improvvisa scomparsa della loro civiltà.
      Edgardo Coello, la guida che mi accompagna con grande preparazione e passione nel mio breve tour nelle terre dei Maya, afferma che le massime realizzazioni di questo popolo furono la scrittura, la matematica, il calendario e l architettura monumentale, che lo pongono al livello delle massime civiltà della storia, come gli Egizi e i Romani. E ha ragione. Quando ci si trova di fronte alle loro piramidi, ai palazzi amministrativi, agli sferisteri o campi di pelota (il gioco rituale con una palla più importante della religione maya), alle stele e alle sculture, non si può non provare lo stesso senso di meraviglia che si prova di fronte alla grandiosa maestà delle piramidi egizie o dei massimi monumenti delle grandi civiltà di ogni continente. E ciò che più sorprende è che tali costruzioni furono realizzate in un continente isolato dal resto del mondo dove non si conoscevano ancora la lavorazione dei metalli e l uso della ruota. Costruzioni così grandiose indicano una forte organizzazione sociale, guidata da una gerarchia militare/sacerdotale, ma sostenuta dalla fatica di migliaia di lavoratori. Segnalano anche la maturazione di competenze architettoniche e tecniche molto evolute, tali da consentire a quegli edifici di essere assolutamente stabili ancora oggi a distanza di più di mille anni.



      Le ipotesi fantasiose
      L avvento di una civiltà così straordinaria in condizioni così improbabili suscita la fantasia di molti appassionati. Alcuni arrivano a sostenere che i Maya fossero extraterrestri giunti sulla Terra per lasciare con la loro impronta un messaggio di armonia e rispetto della natura, e poi partiti improvvisamente, forse per la previsione di un periodo nefasto. Altri riprendono il mito platonico di Atlantide, isola o continente dove viveva un popolo estremamente evoluto. Il diluvio universale sommerse Atlantide e il suo civilissimo popolo si disperse in diverse aree, tra le quali non ci furono più rapporti fino all era moderna. Questo spiegherebbe la somiglianza sorprendente tra le piramidi maya e quelle egizie, somiglianza altrimenti incomprensibile, a parere di questi interpreti, se i due popoli non derivassero da una lontana origine comune.



      Le piramidi
      In effetti le affinità tra le piramidi maya e quelle egizie sono numerose, dalla forma (la somiglianza in questo caso è maggiore con le primissime piramidi, come quella a gradoni del faraone Zoser a Sakkara, e con gli ziggurat della Mesopotamia), alla loro funzione sepolcrale, alla presenza di simbologie astronomiche, astrologiche ed esoteriche, all uso della pietra. In entrambi i casi si tratta di opere che stupiscono per la grande competenza costruttiva e la complessità realizzativa messe in atto da popoli che non disponevano dei potenti mezzi tecnici moderni. Nelle città maya erano molto importanti, oltre alle piramidi, altri edifici ornati con sculture e stele che, nati probabilmente come centri cerimoniali, avevano conservato un importante funzione religiosa anche quando erano ormai abitazioni e sedi del potere politico e militare. L evoluzione delle città comportò anche cambiamenti culturali e simbolici: le iscrizioni sui monumenti, per esempio, che in origine erano prevalentemente mitologiche o astrologiche, nel tempo si trasformarono in narrazioni di storie riguardanti le dinastie regnanti. Una grande differenza tra Centroamerica ed Egitto sta, comunque, nella cronologia: le piramidi maya furono costruite millenni dopo quelle egizie. Viste le molte somiglianze, ci si è domandato se ci sia una relazione tra le due civiltà, ma questo per ora è un quesito senza risposta.



      La storia
      La ricostruzione degli storici è naturalmente molto diversa dalle interpretazioni fantasiose che abbiamo visto, anche se è in continua evoluzione, data la scarsità di informazioni a loro disposizione. Molti monumenti maya sono tuttora nascosti dalle foreste e il lavoro che gli archeologi devono ancora fare è enorme. La scrittura non è stata integralmente decifrata. Per non parlare degli innumerevoli documenti che sono andati distrutti a causa di secoli di guerre intestine tra le città maya e i popoli del Messico centro-settentrionale e poi per mano della colonizzazione spagnola. Nei primi decenni del XVI secolo, Diego de Landa, vescovo e inquisitore dello Yucatán, ebbe un ruolo ambiguo e contraddittorio. Da un lato distrusse codici importantissimi e proibì usanze tradizionali per sradicare quella che lui definiva l eresia, dall altro cercò di comprendere la cultura maya e di decifrarne la scrittura. Nacque così quello studio della civiltà maya che è tuttora in corso. Quello che si sa è che i Maya si stanziarono in America centrale nel secondo millennio prima di Cristo e maturarono la propria cultura in un lungo periodo, detto formativo o preclassico, in cui, grazie anche al contatto con altre culture come quelle mesoamericane degli olmechi e degli zapotechi, svilupparono i principali elementi della loro civiltà. Questa raggiunse l apogeo nel cosiddetto periodo classico, tra il 250 e il 900 d.C., quando l organizzazione sociale si diede la forma politica di città stato rette da monarchie assolute ereditarie, spesso in guerra tra loro, ma a volte alleate. Si affermarono soprattutto le città di Tikal, in Guatemala, e di Calakmul, nel Petén, che si posero a capo di alleanze (tra loro ostili) alle quali aderirono le altre città come Palenque, Copán e Yaxchilán. Furono i secoli delle massime realizzazioni della civiltà maya.



      La matematica, il calendario, l astronomia
      Matematica, astronomia e calcolo del tempo erano strettamente intrecciati.
      Matematica
      I Maya elaborarono un efficace sistema di calcolo su base vigesimale (cioè su base 20), funzionale quanto il nostro sistema decimale e forse più adatto a fare operazioni su numeri elevati. Mentre le cifre dei nostri numeri, infatti, rappresentano, da destra a sinistra, le unità, le decine, le centinaia, le migliaia, ecc., i glifi dei numeri maya erano, dal basso verso l alto, le unità (rappresentate graficamente con dei punti, mentre le cinquine erano raffigurate con delle barrette), le ventine, i multipli di 360, di 7.200, di 144.000 e così via. In un sistema vigesimale ci si sarebbe aspettati una serie 20-400-8.000-160.000. Il fatto che la terza cifra indichi invece i multipli di 360 deriva dal legame tra la matematica e il calendario. Venti era il numero dei giorni del mese maya e l anno era considerato composto di 18 mesi per un totale di 360 giorni: quindi il mese si fondava sulla matematica in sé (20 giorni, secondo il sistema vigesimale) e la matematica sul calendario (la terza cifra si fonda sui 360 giorni dell anno). I Maya – e forse ancor prima di loro gli Olmechi e gli Zapotechi – furono i primi a utilizzare lo zero, già prima dell era cristiana, mentre gli Indiani lo scoprirono nel V secolo d.C. e gli Arabi lo ereditarono dagli Indù nell VIII. Astronomia
      I Maya applicarono il proprio efficiente sistema di calcolo all astronomia, dove raggiunsero risultati notevoli che stupiscono per la semplicità dei mezzi utilizzati, i quali si riducevano all osservazione a occhio nudo e al calcolo matematico. Oltre alla precisione quasi assoluta nella determinazione dell anno solare in 365,242 giorni, essi erano in grado di prevedere con altrettanta precisione le eclissi solari, di calcolare le rivoluzioni di Venere (pianeta al quale prestarono grande attenzione) e i cicli della luna e avevano profonda conoscenza delle stelle. Gli osservatori astronomici erano tra gli edifici più importanti delle principali città, come Palenque
      e Chichén Itzá.



      Calendario
      Il calendario maya era molto complesso e si collegava con la matematica, con la religione e con l astronomia. È chiaramente di origine matematica la divisione, che abbiamo già visto, del mese in 20 giorni e astronomica quella dell anno in 18 mesi per raggiungere i 360 giorni. Ma i Maya sapevano benissimo che l anno solare è composto di 365 giorni e una frazione, per cui ai 18 mesi aggiungevano 5 giorni, che consideravano infausti. Accanto a questo calendario civile, essi ne seguivano uno rituale, che prevedeva un anno di 260 giorni, cioè di 13 mesi di 20 giorni. E dato che il primo giorno dei due calendari coincideva una volta ogni 52 anni (cioè 18.980 giorni, laddove 18.980 è il minimo comune multiplo di 260 e 365), questo periodo era considerato un ciclo storico di estrema importanza. I Maya avevano una concezione ciclica del tempo, ispirata dalle loro conoscenze astronomiche. Come i giorni sono cicli di dì e notte e gli anni solari cicli di stagioni, così, a livello più grande, la vita universale si divide in cicli cosmici. Essi temevano che alla fine di un ciclo potesse avvenire la fine di un mondo, sempre seguita però dalla nascita di uno nuovo. Secondo i Maya la quinta era cosmica doveva finire per il 21 dicembre 2012, giorno nel quale sarebbe iniziata la sesta era (cfr. MC 1-2/2013 p.51). Poiché ogni era cosmica era stimata in circa 25.000 anni, è evidente che i Maya avevano un idea dell antichità del mondo molto più estesa rispetto al pensiero europeo dello stesso periodo storico. Era considerato importante anche il periodo di 20 anni, detto katun. Sia la vita del singolo uomo, sia le vicende politiche erano scandite in katun, che si credevano governati dalle divinità che decidevano la fortuna favorevole o sfavorevole di ogni giornata e di ogni periodo. Il computo degli anni della storia si teneva a partire da un anno zero che coincideva con il 3.114 a.C., per motivi che sono ancora ignoti. La religione
      La religione dei Maya era un politeismo estremamente complesso, con una divinità suprema, Itzamná, circondata da un pantheon di numerosissimi dei associati ai punti cardinali, ai colori, ai numeri, ai periodi del tempo (ogni giorno ha un dio benefico o malvagio che lo governa), ai corpi celesti (Sole, Luna, Venere), agli elementi naturali (pioggia, mais, alberi, animali come il giaguaro e il colibrì). Erano particolarmente importanti il culto del dio del mais, su cui si fondavano l agricoltura e l 80% dell alimentazione, e della pioggia (Chac), poiché la siccità era la principale causa di carestia. Compito dell importantissima casta sacerdotale era interpretare, servendosi anche della matematica e dell astronomia, la complicatissima ragnatela di influenze positive e negative delle varie divinità per stabilire i giorni fausti o nefasti per ogni azione umana, dalla guerra al matrimonio, alla semina, all incoronazione di un re. I sacerdoti organizzavano e conducevano le cerimonie, precedute da lunghi periodi di purificazione mediante digiuno e astinenza sessuale. L aspetto più importante dei riti religiosi, che prevedevano anche danze, banchetti e feste pubbliche, erano le offerte e i sacrifici agli dei, per ottenerne la benevolenza. Venivano offerti oggetti di valore e sacrificati animali e, per nutrire e saziare soprattutto gli dei della guerra, esseri umani. In cima alle piramidi destinate ai sacrifici umani era collocata una scultura di pietra, il chacmool, sul quale alle vittime veniva estratto il cuore ancora pulsante e offerto agli dei. I sacrifici umani erano un antichissima tradizione mesoamericana, ma aumentarono quando i Maya furono conquistati e dominati dalle popolazioni del Nord, i Toltechi, che introdussero il culto del serpente piumato, Quetzalcoatl, che in lingua maya fu chiamato Kukulkan. Oggetti e vittime sacrificali erano gettati anche nei sacri cenote, pozzi sacri, in genere all interno di grotte, per ottenere il favore di Chac, il dio delle piogge, fondamentale per evitare le sofferenze della siccità. I Maya operavano anche gli autosacrifici, cioè donavano il proprio sangue agli dei, gli uomini pungendosi i genitali, le donne la lingua.



      La scrittura
      Non sarebbe stato possibile raggiungere risultati così profondi in matematica e astronomia se i Maya non avessero disposto di un sistema efficiente di segni per registrare, comunicare, trasmettere e sviluppare osservazioni, calcoli, teorie e interpretazioni. Essi furono la civiltà americana che elaborò il linguaggio scritto più complesso. Oltre ai segni per indicare i numeri, produssero un complicato sistema di grafemi per esprimere la loro lingua, tuttora compreso solo in parte dagli studiosi. Nelle epigrafi sulle stele, gli architravi, le pareti e i gradini dei monumenti raccontarono prevalentemente le gesta, la vita e la storia dei regnanti delle città stato, sempre accuratamente datate, mentre nei codici (scritti in genere su fogli ricavati da pelle di cervo o da cortecce dell albero del fico) trasmisero soprattutto le proprie dottrine religiose, astronomiche e scientifiche. Per tanto tempo gli studiosi hanno discusso se si trattasse di una scrittura fonetica (i cui caratteri, cioè, rappresentassero i suoni della lingua) o ideografica (se rappresentassero, invece, direttamente gli oggetti e i concetti). Le ricerche della seconda metà del XX secolo hanno dimostrato che si trattava di un sistema misto, in cui alcuni caratteri sono fonetici sillabici, altri ideografici.



      La scomparsa
      Un altro grande mistero è quello della scomparsa della civiltà Maya. Come sono stupefacenti le loro realizzazioni con i pochi mezzi tecnici di cui potevano disporre, così è sorprendente la rapidità con cui la loro civiltà scomparve. Edgardo, la mia ottima guida, sottolinea che a scomparire non fu la popolazione, che esiste ancora oggi e conta milioni di individui, ma la civiltà che si era manifestata nelle città stato e nei loro maestosi monumenti. Alla fine dell età classica, dopo il 900, gran parte delle città furono abbandonate, al punto che la foresta le inghiottì. Ancora oggi molti monumenti e, chissà, interi centri sono sepolti o nascosti e ci vorranno tempo e finanziamenti per recuperarli. Nel cosiddetto periodo postclassico la civiltà maya sopravvisse nelle regioni settentrionali, dove, però, subirono l invasione e il dominio dei popoli del Messico centrosettentrionale, come i Toltechi di Tula. Ci fu una fusione che produsse quella che viene chiamata la civiltà maya-tolteca, in cui ai caratteri tradizionali della cultura maya si aggiunsero una mentalità più fortemente militaristica e l introduzione di nuovi culti. Inizialmente ebbe un periodo di splendore ed egemonia locale la città di Chichén Itzá, dove furono costruiti monumenti di tale interesse (come la piramide detta El Castillo) da far entrare il sito nel novero delle sette meraviglie del mondo. Alla sua crisi, intorno al 1220, emerse l ultima importante città maya, Mayapán, che esercitò il proprio dominio regionale fino al 1440. Quando nella regione arrivarono gli spagnoli (lo Yucatán fu conquistato da Francisco de Montejo nel 1541), la grande civiltà maya era pressoché scomparsa. Gli spagnoli s impegnarono in un opera di sradicamento di quel che era rimasto della cultura e della religione locali, distruggendo monumenti, documenti e usanze e imponendo i propri modelli culturali e la religione cattolica. Il re di Spagna affidò ai conquistatori, con l istituzione dell encomienda (affidamento), lo sfruttamento del territorio e degli abitanti, con l impegno a convertire la popolazione indigena al cattolicesimo. Le antiche città maya furono sostituite da città di modello europeo, come Mérida, nuova capitale dello Yucatán. Quali furono le cause del declino di una civiltà tanto forte? Alcuni studiosi ipotizzano cause come l eccessivo incremento demografico, lo sfruttamento esasperato del suolo, la deforestazione, la siccità, epidemie, disastri naturali come terremoti e uragani. Altri – ed Edgardo è d accordo con loro – ritengono più decisive le guerre tra le diverse città stato, forse rivolte interne della popolazione contadina contro la casta dominante guerriera/sacerdotale (è l ipotesi di Eric Thompson) e, in una società già indebolita, le invasioni dei Toltechi e successivamente degli spagnoli, che diedero il colpo finale a un mondo già in crisi per ragioni interne.



      I Maya oggi
      Quando chiedo a Edgardo, che è orgoglioso della percentuale di sangue maya ricevuto dalla madre, che cos è rimasto dell antica civiltà nei milioni di Maya che ancora oggi vivono nel Messico meridionale e in altri paesi dell America centrale, mi risponde: la lingua, il cibo (fondato sulla netta prevalenza del mais), molte tradizioni, lo sciamanesimo e abitudini, come dormire sulle amache, assolutamente adatte al clima tropicale. I Maya sono ancora un popolo fondamentalmente contadino, anche se oggi nello Yucatán si sta affermando il turismo. Eric Thompson, archeologo che visse diversi decenni a contatto con i Maya odierni, riassunse il loro carattere in tre parole chiave: religiosità, moderazione, obbedienza. L antica religione maya sacralizzava ogni aspetto della natura e della vita individuale e sociale degli esseri umani. Oggi i Maya hanno assorbito la religione cristiana, ma l hanno fusa, soprattutto nelle campagne, con le antiche credenze. Spesso i santi cristiani sono associati ad antiche divinità e le cerimonie religiose conservano aspetti dei vecchi culti. I Maya sono un popolo che ama il lavoro ed è portato a dominare le proprie passioni. Il digiuno e l astinenza sono sempre state per loro le vie della purificazione. Solo l alcol, da sempre presente nella loro cultura e nei rituali religiosi come mezzo per raggiungere esperienze estatiche e allucinatorie, può talvolta alterare animi altrimenti moderati e misurati. I Maya hanno tuttora un forte senso della tradizione e il culto della propria famiglia. Anche al turista che li ha frequentati per pochi giorni appaiono come un popolo sereno, pacifico, accogliente, sorridente e molto laborioso. Come scrisse Thompson, il loro motto potrebbe essere: «Vivi e lascia vivere». Sergio Paramentola


      Sergio Paramentola, autore dell'articolo, insieme alla guida Edgardo Coello
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        Kenya: Avventura ed emozioni

        Sono passati circa 5 anni dal mio ultimo viaggio in Kenya e se avrete voglia di leggere queste righe, proverò a spiegare con parole ciò che di immenso i miei occhi hanno colto e trasmesso alla mia mente affinché ne custodisse vivo il ricordo. Arrivata all aeroporto di Mombasa già noto le prime differenze con il Nostro Mondo, e mi accorgo che qui la gente sorride, saluta si prende cura di te anche se non ti conosce ed è la prima volta che ti vede e mi fa strano e rifletto sul perché noi civilizzati non sorridiamo mai, siamo sempre arrabbiati anche quando andiamo in vacanza, così scontrosi, ostili con gli altri eppure, penso io, basterebbe solo un ben arrivato , buongiorno , arrivederci ! Quindi perplessa e pensierosa mi avvicino al ragazzo del transfer che mi accompagna su un pulmino vecchio e mal messo che una volta raccolto tutti gli interessati, ci avrebbe condotti nella struttura prescelta. Arriviamo in questo piccolo boutique hotel che da subito si capisce essere un ambiente molto accogliente ed intimo…ed anche qui non si fa altro che salutare sempre e comunque a tutte le ore ed in qualsiasi momento. Ad ogni Jambo (questa è la parola in lingua swahili per dire Ciao) sulla mia bocca si stampa un sorriso ed io mi sento meglio. Le giornate qui in questo resort dall atmosfera magica, trascorrono all insegna del relax e dalla pace assoluta, sembra come se il tempo si sia fermato e mi spaventa il fatto che prima o poi dovrò tornare alla vita caotica di sempre, ma questo si sa fa parte del viaggio, quindi cerco di non pensare e continuo a vivere questo sogno. Sapevo che sarebbe stato emozionante e che non sarei potuta ripartire senza aver fatto il safari, d'altronde era stato quello il motivo del mio viaggio quindi non ci penso due volte…domani si parte per lo Twavo Est! Trascorro la notte pensando a quello che avrei visto, un turbinio di immagini confuse scorrevano nella mia mente, animali, colori, luoghi, sensazioni, ero davvero emozionata. La mattina ad attendere me ed altri ospiti del Resort un pulmino anche questo mal ridotto, che in circa 3 ore e mezza ci avrebbe portato al campo tendato dove avremmo trascorso la notte…per quanto io possa essere precisa nel descrivere ogni minimo particolare, non riuscirei a trasmettere le sensazioni che si provano durante un ‘esperienza simile, il safari è il momento in cui ti accorgi di quanto immensa e feroce sia la natura e di quanto si lasci vivere in totale sicurezza purché la si rispetti e ci si avvicini in punta di piedi. Così mentre fai un safari può ascoltare in silenzio il fruscio delle boscaglia mossa dagli animali che si muovo intorno a te, l odore della savana di un colore rosso intenso quasi indelebile, i suoni della natura e tu solo uno spettatore che assiste impotente a questo spettacolo dove i grandi predatori si muovono secondo delle leggi ben precise, le leggi che regolano il ciclo della vita. Ed ecco che, prima di andare a cena, dopo aver concluso una piacevolissima giornata di safari alla ricerca dei Big Five (cosi vengono chiamati leoni, bufali, elefanti, leopardi e rinoceronti), mi trovo ad assistere a quanto di più bello ed unico poteva capitarmi, una scena di caccia che prima di allora avevo visto solo nei documentari in tv: da lontano sette leonesse belle e maestose abbattersi su di un elefante mentre ignaro di ciò che gli stava per accadere, continuava a bere in una pozza d acqua posizionata a circa 10 metri di distanza da noi, probabilmente abbandonato dal branco perché malato. In quel momento avrei voluto urlare a quel povero elefante di andarsene, di girarsi, di scappare, ma nulla siamo rimasti tutti li a bocca aperta e le lacrime agli occhi per l immensa gioia e allo stesso tempo tristezza di assistere ad un evento simile. Il mio safari era terminato, avevo contratto una malattia nota a tutti il mal d Africa! Ora bisognava tornare alla vita reale dove gli animali della savana siamo noi e la savana la città nella quale viviamo fatta anche questa di colori, suoni, persone che nemmeno vagamente ricordano il Paese dai mille volti.
        Chiara Narcisi
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          Umoja, Il villaggio delle donne

          Umoja, così si chiama il villaggio per sole donne situato nella provincia di Samburu, nella regione centrale del Kenya. Il villaggio fu fondato nel 1990 da un gruppo di 15 donne vittime di stupro, violentate da soldati dell esercito britannico, ripudiate dalle famiglie, qui si erano costruite un rifugio. La matriarca del villaggio è Rebecca Lolosoli, della tribú Samburu,fra le fondatrici del nucleo iniziale. Dopo essersi ritrovata in ospedale in seguito all aggressione punitiva di un gruppo di uomini per aver parlato alle donne del villaggio dei loro diritti, Rebecca decise di provare a fondare una comunità tutta al femminile, dove le donne potessero vivere tranquillamente e crescere i propri figli libere dalla paura e dalla violenza patriarcali. Oggi ospita 47 donne. Umoja significa "unità" in Swahili, ed è un posto senza uomini, dove le donne vivono e lavorano tutte insieme in totale autonomia. Il villaggio è organizzato con un capo (una capa) villaggio, il parlamento degli anziani (anziane), e un grande albero al centro di tutto, l'albero della parola sotto il quale le donne tutte riunite prendono le decisioni più importanti. Le donne di Umoja si occupano prioncipalmente di agricoltura, allevamento, gestione di un campeggio per turisti da safari e laboratori artigianali, molti turisti infatti pagano un piccolo biglietto e spesso comprano i gioielli nel piccolo negozio di artigianato perchè è solo attraverso queste entrate che le donne possono guadagnare uno stipendio ed essere indipendenti. Dopo 27 anni dalla fondazione del villaggio il ricordo delle violenze è ancora vivo tra i membri di Umoja, ma nonostante questo le donne non rinunciano ad avere rapporti sessuali. Avere un bambino rimane una priorità per la cultura Samburu, e i figli sono considerati il dono più grande, così si recano negli insediamenti vicini e invitano gli uomini a trascorrere la notte con loro. Alcuni visitano regolarmente il villaggio per aiutare le donne con il bestiame e i lavori più pesanti e capita che abbiano tre o quattro mogli ad Umoja.
          The rights we want:
          "we want to choose our husband"
          "we want to own the land"
          "we want to go to school"
          "we don't want to be cut anymore"
          "we want also to make decision"
          "we want respect in politics, to be leaders"
          WE WANT TO BE EQUAL
          - Rebecca Lolosoli -
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            Kilimanjaro Trekking

            L'ascensione al Kilimanjaro è come un viaggio tra i climi del pianeta, che inizia ai tropici e si conclude nell'artico. Raggiungere la cima è il sogno di ogni escursionista, nonostante non sia un'impresa così impossibile molti non riescono a raggiungere la vetta. In questo articolo, vogliamo fornire tutte le informazioni utili per affrontare la scalata nel modo migliore e raggiungere così il punto più alto, Uhuru Point situato a 5.895 metri. Salire sul tetto dell'Africa è una sfida per le gambe e per la mente, da fare almeno una volta nella vita.
            Preparazione fisica
            E fondamentale essere fisicamente preparati alla sfida del Kili. Un appropriato allenamento alla montagna e al trakking in altezza è determinante per la conquista della vetta. Preparazione mentale
            Se hai una buona forma fisica, non è necessaria un'esperienza di arrampicata per salire sul vertice incontrastato dell'Africa. Il consiglio è quello di essere sempre in uno stato d'animo positivo, ma non troppo presuntuoso, cercare di anticipare i diversi scenari che si possono incontrare sulla montagna e cercare di elaborare mentalmente il percorso di azione più idoneo sia se sei da solo o parte di un gruppo. La tua resistenza mentale, ti aiuterà ad affrontare le sezioni più difficili. Essere adeguatamente attrezzati e mentalmente preparati è la chiave per arrivare in cima. Il Kili può essere affrontato in qualsiasi periodo dell'anno, anche se è possibile incontrare le piogge più in aprile, maggio e novembre che in altri mesi.
            Cosa fare in montagna
            Vai lentamente. Questo è molto importante durante i primi giorni di arrampicata, quindi segui il consiglio della tua guida sulla giusta velocità di salita e anche se ti senti bene, rallentare e goditi il paesaggio.
            Bere acqua è fondamentale
            Bere almeno 3 - 4 litri di liquidi al giorno - preferibilmente acqua. L'acqua corrente in montagna si può bere dal giorno 2 in poi. Se non siete abituati all'acqua dolce nella natura, evitare qualsiasi inconveniente usando le compresse per la depurazione dell'acqua. Ricorda che un equilibrio idrico del corpo è una delle chiavi per una salita di successo.
            Bagaglio
            Sarete in montagna per 5 o 6 giorni almeno. Bisogna quindi portarsi dietro vestiti a sufficienza, soprattutto calzettoni. A causa delle imprevedibili precipitazioni e dei numerosi torrenti, è consigliabile impacchettare ogni capo in sacchetti impermeabili Capi di abbigliamento: Scarpe da trekking/da ginnastica (non è necessario camminare con anfibi o scarponi sin dall inizio, calzature più tecniche e più pesanti possono essere necessarie solo nell ultima parte). Molto importante, un bastone da camminata o una racchetta da sci. Una delle componenti fondamentali dell abbigliamento è rappresentata dalla giacca a vento: deve tener caldo, resistere a temperature di –25°C, proteggere dal vento e lasciare allo stesso tempo traspirare. Cerca di evitare abiti o biancheria intima stretti: rallentano la circolazione e impediscono i movimenti. Un passamontagna è fondamentale, perché protegge il viso e la testa dal freddo, dal vento, dal sole e dalla neve. Altri capi quali calzoncini, magliette, maglioni sono necessari, soprattutto quando ci si muove ad altitudini poco elevate, dove le temperature diurne sono alte. Un errore comune agli appassionati di trekking in montagna è quello di indossare tutto ciò che hanno a disposizione partendo dal cotone sulla pelle: il cotone assorbe l umidità alla perfezione e l umidità intrappolata a contatto con la pelle porta all abbassamento della temperatura corporea che può trasformarsi in ipotermia. E invece importante usare abbigliamento intimo termico che permetta all umidità di allontanarsi dal corpo e di evaporare all esterno. Lo strato intermedio deve tenere caldo e garantire l isolamento dall esterno, mentre quello più esterno dev essere antivento, antipioggia e traspirante. Prodotti come il Goretex, il Vertex, o l Entex hanno queste caratteristiche.
            Mal di montagna
            La mancanza di abitudine all altitudine può provocare il mal di montagna. Può essere molto pericoloso se i primi sintomi vengono ignorati e non si affronta la situazione tempestivamente. Circa il 70% dei viaggiatori che tentano la salita dei Kili avvertono a vari livelli il mal di montagna
            Malaria
            Le aree al di sopra dei 1800 m ne sono immuni. Al di sotto di tale altitudine si consiglia la profilassi. E opportuno consultare il proprio medico in proposito, dal momento che la sensibilità ai farmaci che si utilizzano per la profilassi cambia da persona a persona. Il Lariam è il farmaco più diffuso, ma va preso con attenzione: ne sono noti gli effetti collaterali (che non si presentano in tutti i soggetti che ne fanno uso): tali effetti possono abbassare la resistenza e ridurre la performance. Attualmente è disponibile in Italia un nuovo farmaco, il Malarone, i cui effetti collaterali sono decisamente inferiori a quelli del Lariam. Le donne che utilizzano anticoncezionali devono consultare il proprio medico prima di intraprendere il trattamento antimalarico
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              I preziosi tessuti giapponesi

              A seconda della decorazione i tessuti giapponesi sono divisi in due categorie principali: Somemono quando la decorazione di tutti i tessuti è tinta o dipinta, generalmente con un processo manuale; Orimono invece si chiamano quei tessuti la cui decorazione è ottenuta tramite tessitura (si tratta quindi di tessuti usati per la realizzazione di abiti meno formali e per situazioni "mneno importanti"). Il tessuto più utilizzato per i kimono è la seta, importata dalla Cina fin dalla nascita della civiltà giapponese. I vari tipi di seta (kinu) divcersi per lavorazione, filatura e qualità dei bachi è la più nobile delle fibre naturali. L'elevato costo di questo materiale è dovuto al tipo di produzione e lavorazione, ma è giustificato dalle caratteristiche del tessuto. Elasticità, lucentezza, freschezza e leggerezza, nonostante la sua finezza, fanno della seta un tessuto molto resistente e con un'ottima protezione termica. La seta giapponese ha conosciuto secoli di evoluzione fino a diventare la più pregiata e costosa al mondo.

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                La perla nera tahitiana

                "LE PRIME SCINTILLE DI LUCE"
                La mitologia polinesiana descrive le perle nere come le prime scintille di luce donate dal creatore a Tāne, la divinità che presiedeva i dieci livelli del paradiso. A partire da esse, il dio creò le stelle e poi le consegnò a Ruahatu, il signore degli oceani, affinché potesse illuminare il proprio regno. Poi il dio 'Oro, il guardiano della bellezza, dell armonia e della pace, le regalò alle donne che seduceva. Quando la sua opera fu completa, egli affidò all umanità l ostrica perlifera te uhi tara mea, a ricordo del suo viaggio sulla Terra.

                PINCTADA MARGARITIFERA, VARIETÀ CUMINGII
                La perla tahitiana proviene dalla Pinctada margaritifera della varietà Cumingii. Quest ostrica perlifera secerne naturalmente pigmenti neri che donano alla madreperla e alle perle da essa prodotte la loro tinta caratteristica. Tipica delle lagune degli atolli polinesiani, la Pinctada margaritifera misura dai 25 ai 35cm di diametro. Allo stato brado, vive attaccata al corallo e si ciba di plankton e di minuscole creature ed alghe che popolano le acque della laguna. Molti osservatori riportano che le popolazioni indigene conoscevano bene questo mollusco molto prima dell arrivo degli europei. Esso era utilizzato per produrre la madreperla con cui erano creati ami e ornamenti, oltre ovviamente a essere ricercato per le sue magnifiche perle.

                "PERLE DELLE REGINE"
                Allo stato naturale, la perla si forma e si sviluppa attorno a un granello di sabbia, o di un altro corpo estraneo, che si insinua all interno del guscio dell ostrica. Il mollusco ricopre l intruso con vari strati di madreperla che col tempo vanno a formare la perla vera e propria. Un processo che richiede anni ed è estremamente raro. Per poter trovare una perla "naturale" è necessario infatti aprire dalle quindici alle ventimila ostriche perlifere. Dal XIX secolo in poi, la pesca intensiva iniziò inesorabilmente a essere praticata nelle lagune delle Isole Tuamotu e Gambier, non solo per la madreperla, ma anche nella speranza di trovare le famose perle nere. Esse erano così rare e preziose da essere conosciute come "Perle delle regine" e "Regine delle perle".

                L ERA DEI PIONIERI
                In risposta alla grande difficoltà di reperire perle naturali, fu sviluppata una tecnica per la produzione artificiale. La tecnica dell innesto nelle ostriche perlifere è frutto degli sforzi di tre ricercatori giapponesi dell inizio del XX secolo: Kokichi Mikimoto, il "padre" della moderna perlicoltura che ha ideato la tecnica, in seguito perfezionata da suo genero, Tokishi Nishikawa, e Tatsuhei Mise. Negli anni 60, Jean-Marie Domard, un chirurgo veterinario che operava per l industria della pesca nella Polinesia francese, iniziò a effettuare alcune sperimentazioni sulla Pinctada Margaritifera con le tecniche di innesco sviluppate in Giappone. Ed è così che nacque l industria della perlicoltura polinesiana. I primi esperimenti ebbero luogo nella laguna di Bora Bora e in seguito molti allevamenti sorsero nelle isole di Mānihi, Marutea e Mangareva. Degli anni 80, la perlicoltura conobbe un importante sviluppo. Nel 1976, il Gemological Institute of America riconobbe l autenticità del colore naturale della perla tahitiana di coltura. La The World Jewellery Confederation (Confédération Internationale de la Bijouterie, Joaillerie et Orfèvrerie - CIBJO), le conferì così ufficialmente il nome di "Perla di coltura tahitiana".

                INNESTO
                L innesto consiste nell inserimento di un nucleo all interno della "sacca perlifera" di un ostrica. Simile a una biglia ma di origine organica, questo nucleo svolge un ruolo paragonabile a quello di un granello di sabbia. Durante il processo di innesto, viene introdotto anche del tessuto organico proveniente da un ostrica donatrice. Per eseguire questa operazione, la conchiglia viene aperta per mezzo di pinze. Se non ci sono problemi, l innesto si svilupperà all interno dell ostrica che, secernendo strato dopo strato la madreperla, coprirà il nucleo e, infine, darà forma a una perla. L innesto, tuttavia, è un operazione molto delicata. Alcune perle possono rigettare il nucleo oppure morire. Solamente 25-30 ostriche ogni 100 producono perle commerciabili. Il lasso di tempo necessario per il completamento della perla è di circa 18 mesi. Agli albori dell industria della perlicoltura polinesiana, questa delicata operazione richiedeva una precisione e una perizia in possesso solamente degli esperti nipponici. Oggi, tuttavia, molti polinesiani hanno appreso questa tecnica ed esiste addirittura una scuola di innesco nell arcipelago Tuamotu-Gambier...

                RACCOLTA E ALLEVAMENTO
                Il primo stadio della perlicoltura è la raccolta delle larve delle ostriche. Questa operazione viene effettuata da "raccoglitori" che sono in effetti strisce di materiale sintetico sospese a diversi metri al di sotto della superficie delle laguna alle quali le giovani ostriche si attaccano. Questi raccoglitori rimangono in acqua per 1 o 2 anni, producendo ostriche che misurano dai 5 ai 10 cm. In seguito, le ostriche sono legate l una con l altra e vengono rigettate in acqua dove continuano a crescere sino a raggiungere la dimensione giusta per l innesto, ossia dai 9 agli 11 cm. Questa seconda fase richiede dai 3 ai 12 mesi.

                RACCOLTA
                Dopo la difficile operazione dell innesto, si attendono circa 18 mesi per ottenere una perla. In tutto, si tratta quindi di quasi quattro anni di lavoro. Dopo il primo raccolto, è possibile che venga effettuato un secondo innesto. Se il primo ha prodotto un buon risultato, ciò significa che l ostrica potrebbe essere ancora in buona salute e produrre una seconda perla. Si può arrivare sino a quattro innesti consecutivi. Questo processo incessante scandisce il ritmo della vita all interno di un allevamento.

                DIVERSITÀ E PREGIO
                La bellezza di una perla dipende da molti fattori: la forma, le condizioni della superficie, il colore, l orientamento, la lucentezza e così via. Le perle di allevamento tahitiane sono conosciute specialmente per il proprio colore e per la grande diversità nelle forme che possono essere circolari, semicircolari, cerchiate, barocche o semibarocche. Le autorità polinesiane hanno identificato cinque livelli di qualità che vanno da "Perfetto" ad A, B, C e D. Ogni 100 ostriche innestate, 25 produrranno una perla commerciabile, ma solo 5 di esse otterranno la classe A. È importante notare che affinché una perla possa essere definita "perla tahitiana di coltura" deve avere uno strato minimo di madreperla di 0,8 mm.

                FAMA INTERNAZIONALE
                Dopo il turismo, la perlicoltura è la seconda voce nel bilancio della Polinesia francese e la principale esportazione. Questo settore e le aziende ad esso collegate danno lavoro a circa settemila persone, principalmente nell arcipelago Tuamotu, nelle Isole Gambier e nell arcipelago della Società. La perla è divenuta un elemento essenziale nello sviluppo dei primi due arcipelaghi. La maggior parte della produzione è inviata in Asia e negli Stati Uniti a seguito delle aste che hanno luogo principalmente a Papeetē e Hong Kong. Grazie alla loro fama internazionale, le perle di Tahiti sono molto ricercate e vengono utilizzate sia nella moda che nella gioielleria. Dalle classiche collane ad altri tipi di gioielli, la perla di Tahiti è una gemma incomparabile.

                QUALCHE CIFRA
                9,5 tonnellate di perle prodotte nel 2007
                631 colture di perle nel 2008
                5.000 posti di lavoro
                Prezzo medio, al grammo, delle perle coltivate nel 2007: 1.268 franchi CFP (10,6 euro)
                Valore dell esportazione di perle nel 2007: 10,6 miliardi di franchi CFP (88,8 milioni di euro)
                Mercati principali di esportazione: Hong Kong/Giappone/Stati Uniti
                Principali aree di produzione: arcipelago Tuamotu - Gambier (90% della produzione) Atollo di Ahe, 'Apataki, Aratika, Arutua, Fa'aite, Fakarava, Gambier, Hao, Kātiu, Kauehi, Kaukura, Mākemo, Mānihi, Marutea Sud. Arcipelago delle Isole Sopravento settentrionali (1,5% della produzione) Ra'iatea, Huahine e Taha'a.

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                  La melcocha: dolce caramella dall'Ecuador

                  La deliziosa melcocha è un dolce tipico di vari paesi sudamericani, dove la lavorazione avviene ancora in maniera artigianale; per l Ecuador sono in particolare famose le melchocas create nella città di Baños, nella provincia di Tungurahua. Ogni Paese ha la propria variente, anche se la preparazione di base rimane più o meno la stessa: l ingrediente principale della Melcocha è lo zucchero di canna, disponibile sottoforma di panela, una tavoletta che si ottiene facendo essicare in stampi rettangolari o circolari la melassa ottenuta dopo aver portato ad ebollizione lo zucchero. Le varianti regionali della melcocha includono poi arachidi, vaniglia, cocco, cannella, scorza di limone e vari aromi, semi e essenze. Il processo di lavorazione comincia sciogliendo le panelas di zucchero in un pentolone, ma da qui in poi i passaggi si fanno sempre più complessi e l unica cosa che consente di riuscire nella realizzazione di questa dolcissima preparazione è la grandissima esperienza di questi artigiani del dolce. Bisogna infatti individuare il momento ottimale per togliere dal fuoco il preparato finora ottenuto (simile per consistenza ad un miele abbastanza denso) momento che solo anni di esperienza nel campo consentono di individuare con precisione. Il preparato viene quindi versato su di una superficie piana bagnata e qui lasciato a raffreddare per un tempo che va dai quattro ai sette minuti (anche qui solo l esperienza consente di valutare con precisione quando questa fase è compiuta), abbastanza da trasformare il preparato fluido che avevamo ottenuto in una sorta di pellicola che è però ancora flessibile, e che l artigiano provvederà a rimuovere dalla lastra ripiegandola su sé stessa. Già, perché da questo punto in poi tutto quello che farà la differenza tra questa palla di zucchero che abbiamo adesso e la melcocha che andremo a mangiare sono i numerosi ripiegamenti che questa subirà, grazie ai quali sarà inglobata aria nel prodotto. Per questa parte del processo l artigiano si aiuterà appendendo il composto zuccheroso ad un legno sporgente e continuerà a tirarlo, torcerlo e ripiegarlo finché questo, grazie all aria incorporata, sarà diventato un composto malleabile da porre negli stampi e ottenere così deliziose caramelle e cioccolatini. Sicuramente il modo migliore per gustare dell autentica melcocha ecuadoregna sarebbe acquistarla in uno dei mercatini locali di Baños, ma se non avete in programma un viaggio in Ecuador nel futuro immediato, potete sempre acquistarla online.
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                    La Boca - coloratissimo quartiere di Buenos Aires

                    Più di quarantamila dei quasi tre milioni di abitanti di Buenos Aires vivono nelle coloratissime case del quartiere La Boca, sul fiume Riachuelo. Il nome del quartiere, letteralmente la bocca, deriva dal fatto che il quartiere sorga sulla bocca del Riachuelo, dove questo si immette nel Rìo de la Plata. Il quartiere si trova a pochi chilometri dal centro di Buenos Aires, e ci si può tranquillamente arrivare tramite la via Defensa, strada che attraversa vari quartieri della città. In epoca coloniale il quartiere non era nient altro che un assembramento di baracche in cui trovavano alloggio gli schiavi africani portati nel nuovo continente, ma fu verso la fine del XIX secolo che La Boca cominciò a diventare il quartiere che è oggi, cioè quando iniziarono ad arrivare gli immigrati italiani e spagnoli, in particolare genovesi. L identità genovese si è sempre sentita molto a La Boca, come testimoniano le curiose vicende che portarono, tra il 1876 e il 1882, alla proclamazione della República Independiente de La Boca, con tanto di atto formale inviato al Re d Italia Umberto I di Savoia. Quella che era cominciata, in clima elettorale, come una battaglia per la gestione autonoma del quartiere e del porto era diventata una lotta per l indipendenza territoriale, che si sedò solo con l intervento del Presidente della Repubblica e dei generali, e che si concluse con l ammainabandiera del vessillo di Genova e alla fine della baldanzosa repubblica indipendente . Ancora oggi però le origini genovesi non sono state dimenticate dagli abitanti, che si chiamano Xeneizes, ovvero Genovesi, plurale modellato sul castellano del termine dialettale ligure Zeneize. Il quartiere conserva ancora oggi la sua natura di quartiere operaio (e alle volte malfamato, non è infatti sicuro avventurarsi nelle zone più periferiche e povere) ed è estremamente caratteristico, in particolare nella zona del Caminito, la via più conosciuta del quartiere, sempre brulicante di vita. Passeggiando ci si imbatte in continuazione in bancarelle che vendono oggetti di artigianato, artisti di strada e ballerini di tango, e addirittura in partitelle di calcio estemporanee. Le casette colorate sono sicuramente la parte più iconica degli scorci de La Boca, e come abbiamo già visto succedere per questo quartiere, la storia dietro di essi è curiosa e interessante: era infatti usanza per gli immigrati tinteggiare le case con la colorata vernice avanzata dalla pittura delle navi per il trasporto merci che navigavano il fiume Riachuelo. Ma si diceva del calcio, che come si sa in Sudamerica è più una religione che uno sport, e La Boca non fa certo eccezione, anzi. La famosa squadra Boca Juniors prende il nome proprio da questo quartiere infatti, dove ha la sua sede la società sportiva omonima. La popolarissima squadra del Boca, terza squadra al mondo per titoli internazionali vinti, fu qui fondata nel 1905 dagli emigranti genovesi, così come l altra famosa squadra di Buenos Aires, il River Plate, fondata nel 1901. Insieme al calcio, l altra grande passione di Boca è sicuramente il tango, e sebbene, come si diceva, non sia raro vedere ballerini di tango esibirsi per le strade del quartiere, qui si trova anche il centro culturale Usina del Arte, una sala per spettacoli che ospita, oltre a spettacoli teatrali e musicali, il Tango Buenos Aires Festival y Mundial, festival di danza che si propone di preservare la tradizione del tango e di portarla ad una platea internazionale. Il lato culturale di Boca ha infine anche un altro asso nella manica, la Fundación PROA, un museo di arte contemporanea in un edificio storico italiano vicinissimo al Caminito, completamente ristrutturato sulla fine del XIX secolo.
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                      Tutto ciò che c'è da vedere a Trinidad, Cuba

                      Trinidad: la città museo di Cuba o la città museo dei Caraibi , soprannomi che anticipano il significativo patrimonio storico-artistico di questo luogo. Fondata nel 1514 da da Diego Velázquez de Cuéllar con il nome di Villa De la Santísima Trinidad, la città è Patrimonio dell'Umanità UNESCO dal 1988, anche grazie all'ottima conservazione delle architetture di epoca coloniale. In una posizione suggestiva, tra mare e monti, senza una comoda via di accesso, la città è invecchiata in un isolamento che ne ha preservato l'identità culturale da ogni possibile rifacimento o innovazione. Nel centro storico le stradine conservano la pavimentazione originale, uno sconnesso selciato che nella maggior parte dei casi è consentito percorrere soltanto a piedi. E così, adeguandosi ai lenti ritmi locali, si può passeggiare per le viuzze del centro e ammirare i lasciti dell'epoca coloniale: dalle casas particulares tinteggiate con colori pastello ai palazzi e le chiese di Plaza Mayor, la piazza principale della città, agli altri palazzi storici che si trovano nel centro e che sono spesso diventati dei musei. Su Plaza Mayor si affacciano la Chiesa della Santissima Trinità, un monumento neoclassico di un'importanza straordinaria non solo per Trinidad ma per tutta la nazione, al cui interno è conservata la statua in legno del XVIII secolo del Cristo de la Vera Cruz, e la Chiesa e il Convento di San Francesco, un complesso nato come convento e diventato poi chiesa nonché, per un certo periodo, prigione e oggi un museo. Lo splendido Palazzo Cantero, edificio neoclassico, è famoso soprattutto per il Museo Histórico Municipal al suo interno, mentre il Museo Romantico di Trinidad si trova nel Palazzo del Conte Brunet e uno dei tanti palazzi della ricca famiglia Iznaga ospita il Museo de Arquitectura Trinitaria. Poco fuori da Plaza Mayor, si trovano i resti dell'Eremita della nostra Signora di Candelora, un ospedale spagnolo del XVIII secolo completamente abbandonato ma dal quale, grazie alla posizione sopraelevata, si può ammirare una suggestiva vista della città. Quando poi sul centro storico calerà la notte, si potrà passare dalle visite culturali alla vita notturna, con numerosi localini per la movida, in particolare sempre in Plaza Mayor. Se si ha un po'di tempo per dare un'occhiata ai dintorni di Trinidad, si potrà sciiegliere tra una giornata di relax nella stazione termale di Topes de Collantes, a 20 km da Trinidad, e un bagno a Playa Ancon, una spiaggia a sud della città, dalle acque particolarmente calde e con importanti formazioni di barriera corallina, che attira appassionati di snorkeling da tutto il mondo. Un'altra possibilità è una visita alla Valle de los Ingenios, lungo la via che da Trinidad porta a Sancti Spiritus. Nel XIX secolo la valle ospitava molti zuccherifici (gli ingenios, appunto) la maggior parte dei quali andò però distrutta nel corso delle guerre di indipendenza che si combatterono al tempo. All'interno della valle si trova la Torre di Iznaga, sulla quale si può salire e ammirare tutta la valle, con un pensiero a tempi più ingiusti e crudeli, dove i sorveglianti vi salivano per controllare gli schiavi a lavoro. Una curiosità: dal 1994 Trinidad è gemellata con l'italiana San Benedetto del Tronto.
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                        Il Parco Nazionale Isola Del Cocco, gioiello di biodiversità


                        L'Isla del Coco, ovvero l'Isola del Cocco, fu scoperta nel 1526 dall'esploratore spagnolo Joan Cabezas, durante l'epoca dei grandi esploratori e delle corse coloniali. L'isola si trova a più di 500 km dalla costa costaricana, una distanza considerevole che non può essere coperta in meno di 32 ore.  Proprio questo suo isolamento è però la carta vincente dell'isola, che grazie ad esso ha potuto preservare le proprie specificità ambientali attraverso i secoli.  Con un'estensione di 23,85 km², è un territorio immacolato, anche in virtù della conformazione stessa dell'isola, montuosa e aspra; si tratta pertanto di un sito naturalistico di importanza primaria a livello mondiale, dove si conserva un patrimonio biologico peculiare, caratterizzato anche da una forte presenza di specie endemiche.  Proprio per questa sua innegabile rilevanza, l'isola è stata dichiarata dal governo costaricano Parco Nazionale prima e successivamente Area di Conservazione marina, fino alla nomina di Patrimonio Naturale dell'Umanità da parte dell'UNESCO nel 1997.  L'isola del Cocco è inoltre il centro della Bioregione Isola Del Cocco, un'area d'importanza fondamentale nella conservazione dell'ambiente marino e delle specie che lo popolano.  Questa enorme biodiversità è valsa all'isola il soprannome di Galapagos Costariquenha, ovvero la Galapagos costaricana.  L'isola del Cocco ospita difatti 235 specie di piante, 362 di insetti e 85 di uccelli, oltre a varie specie di rettili e ragni.  In molti casi si tratta di specie endemiche, che possiamo trovare solamente qui.  Anche le specie marine sono molte e differenziate: testuggini, corallo (18 specie), crostacei, molluschi (ben 118 specie), e poi pesci, con 200 specie diverse.  In particolare è noto come le acque dell'isola abbondino di squali (ed infatti un altro soprannome dell'isola è quello di Shark Island): lo squalo pinna bianca, lo squalo martello, lo squalo pinna d'argento e il gigantesco squalo balena.  Le acque dell'Isola del Cocco ospitano inoltre anche ben 3 specie di delfini; non a caso, l'isola è una meta ambitissima dai divers.



                        Per secoli però, ad attirare visitatori non è stata soltanto la natura lussureggiante e la biodiversità dell'isola, quanto ciò che si poteva nascondere sotto di essa.  Dall'epoca della sua scoperta, l'isola divenne infatti un covo di pirati.  In particolare, tra il XVII e il XIX secolo sarebbero stati qui sepolti ricchissimi tesori.  Il più celebre è il Bottino di Lima, ovvero il ricco carico del brigantino inglese Mary Dear, agli ordini del Capitano Thompson.  Sedotto dall'enorme quantità di oro, argento e preziosi, inclusa una statua della Madonna in oro e pietre preziose, Thompson si sarebbe sbarazzato dei soldati che sorvegliavano il bottino e fatto rotta sull'Isola del Cocco, dove avrebbe occultato il tesoro.  Le vicende sarebbero provate da alcuni carteggi, ma come spesso succede realtà e leggenda si mescolano, rendendo difficile stabilire se questo tesoro sia mai esistito e se qualcosa sia mai stato ritrovato.  Sempre secondo le leggende, sull'isola avrebbero trovato alloggio anche altri tesori, come quello che William Davies avrebbe sepolto nel 1684 o quello lasciato da Benito Espada Sangrienta nel 1819.  In molti si sono mossi alla ricerca dei preziosi bottini, incluse spedizioni internazionali a carattere scientifico, ma nulla è stato trovato, a dimostrazione che forse, leggende a parte, l'unico vero tesoro dell'Isola del Cocco è l'unicità del suo patrimonio naturalistico.
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                          'Gallo Pinto' e 'Casado': la Costa Rica ama il piatto unico


                          La Costa Rica è un paese dalla tradizione rurale, e benché oggi buona parte della popolazione non lavori più nelle campagne, la cucina rimane radicata in quegli ingredienti semplici della tradizione contadina, in particolare riso e fagioli, che costituiscono la base di molti dei pasti degli abitanti di questo paese.  I piatti più diffusi sono il gallo pinto e il casado, entrambi piatti unici ben bilanciati dal punto di vista nutrizionale, come del resto è tutta l'alimentazione dei ticos (gli abitanti della Costa Rica), che sono famosi per la loro morigeratezza a tavola, dove i pasti includono sempre frutta e verdura, e per lo stile di vita attivo.

                          Il casado
                          Il casado è un piatto molto economico che allude fin dal nome – ovvero matrimonio – alla sua natura composita, risultato della felice unione tra ingredienti diversi che però si sposano, è proprio il caso di dirlo, bene tra loro.  Ne esistono diverse varianti, ma il nucleo di base rimangono sempre riso e fagioli, accompagnati o con carne o con pesce, e poi pomodoro e insalata di cavolo e, a volte, una carota, oltre al platano e alla banana che vengono fritti – e prendono il nome di patacones – e hanno un sapore molto gradevole e dolce.  Il platano è un altro cibo che è presente un po'ovunque nella cucina della Costa Rica: somiglia a una grossa banana, ma a differenza di quest'ultima non può essere consumato crudo.



                          Il gallo pinto
                          Il gallo pinto somiglia un po'al casado, ma la sua storia è più controversa, sia per quanto riguarda l'origine del nome che la paternità del piatto.  Il termine gallo potrebbe infatti stare ad indicare la tortilla in cui questo veniva servito e consumato, al posto del piatto, oppure rifarsi ad una leggenda secondo la quale un signorotto di San José, in occasione di una festa, affiancò del riso al gallo che non sarebbe bastato a soddisfare tutti i partecipanti.  Secondo altri invece il nome gallo pinto farebbe riferimento ai vari colori presenti nel piatto.  Per quanto riguarda l'origine della pietanza stessa invece, essa è contesa tra Costa Rica e Nicaragua, con entrambi i paesi a rivendicarne l'invenzione e ad avere questo piatto come parte importante della dieta della popolazione. In sostanza si tratta sempre di riso e fagioli cucinati assieme, ma stavolta conditi con una salsa agrodolce simile alla panna acida, e accompagnati da carne o uova fritte strapazzate.  Il piatto viene di solito consumato per colazione.



                          Altre pietanze tipiche sono spezzatini di patate e carne, le chorredas (tortillas di mais), le empanadas, e le pannocchie arrosto, mentre nelle zone costiere il pesce assume un ruolo più importante nell'alimentazione e la cucina locale si diversifica da quella del resto del paese, con delle specificità proprie e sapori caraibici, con vari tipi di frutta e il cocco e il suo latte a farla da padrone.



                          La cucina costaricana offre anche una selezione di dessert, forse meno salutari rispetto al resto dell'alimentazione, come il flan, una sorta di creme caramel, o la mazamorra, un budino, e il queque seco, una torta a base di zucchero, farina e burro.  Per le bevande, i ticos amano i frescos, drink analcolici fatti con frutta e acqua o latte; diffusissima sono anche la birra e da ultimo, ma non certo per importanza, il caffè.
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                            La Festa della Madonna della Candelora a Puno

                            In Perù le feste sono una faccenda seria! Probabilmente nessuno sa divertirsi come i peruviani, che organizzano ogni anno circa 3000 feste. Come si può ben immaginare, in questopaese a maggioranza cattolica, dove la religione riveste un ruolo certamente importante nella cultura e nella società, la maggior parte di queste feste sono dedicate ad un qualche santo patrono, ma l eccezionale sincretismo tra religione cristiana e tradizioni precolombiane ha prodotto una tradizione ibrida, dove ricorrenze cattoliche si mescolano agli antichi rituali Inca. In qualsiasi momento dell anno vi troviate in Perù non sarà dunque difficile ritrovarsi nel mezzo di un qualche tipo di festeggiamento, festeggiamento che certo non passerebbe inosservato: il risultato di quel connubio di tradizioni indigene e spiritualità cattolica di derivazione spagnola è spesso un qualcosa di stravagante e inconsueto, quasi estraniante, con celebrazioni colorate e rumorose, altamente scenografiche e incredibilmente coinvolgenti e sicuramente sorprendenti.

                            Una festa di cui vale la pena parlare è sicuramente la festa della Madonna della Candelora - Fiesta de la Virgen de la Candelaria - che si celebra a Puno, recentemente dichiarata Patrimonio dell Umanità dall UNESCO. A motivare questa investitura, la straordinaria importanza della festa, che è infatti la più grande manifestazione culturale, musicale e religiosa della nazione: le celebrazioni per la Fiesta de la Candelaria possono infatti tranquillamente competere con le più grandi manifestazioni del Sud America (come il carnevale di Rio) per numero di persone coinvolte. La festa ha luogo tutti gli anni a febbraio e, come spesso succede in Perù, si protrae per più giorni, in questo caso per una settimana piena di musica, danze e cibo. Si comincia all inizio del mese: il rituale che apre le celebrazioni è una messa mattutina (all alba) a cui segue una cerimonia di purificazione, mentre il giorno seguente sì procede con una processione in cui la statua della Madonna viene accompagnata per le vie della città da una coloratissima folla nei tradizionali costumi incaici, con musiche e danze festose. Nei giorni successivi il festival continua con due competizioni di danza e musica che vedono sfidarsi partecipanti provenienti da Puno e dai dintorni rurali della città, oltre che a un numero significativo di persone che emigrate da Puno tornano per prendere parte alle festività e riconnettersi alle proprie radici. Il festival si configura così anche come un opportunità per preservare l identità culturale dei gruppi etnici Quechua e Aymara, con le vecchie generazioni che passano alle nuove tutto quel bagaglio di conoscenze e tradizioni relativo alla musica, alla danza e alla realizzazione dei costumi e delle maschere tipici. La festa giungerà poi finalmente al termine con un ultima sfilata e una messa d addio.
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                              Le meraviglie di Quito

                              A ben 2.850 metri sul livello del mare sorge Quito, capitale dell'Ecuador. L'altezza a cui è situata la città la rende la seconda capitale più alta del mondo, subito dopo La Paz (Bolivia), in una posizione decisamente suggestiva: adagiata sulle falde del vulcano Pichincha, sopra il bacino idrico di Guayllabamba, in una vallata circondata dalle alte vette andine. L'anno della fondazione della città è incerto, ma viene datata al 1534, all'arrivo degli spagnoli, anche se Quito prende in realtà il nome dall'antico insediamento indigeno di Quitu, sui cui resti è stata fondata. Oggi tra l'area urbana e i dintorni rurali, la città conta ben 2.239 191 abitanti, divisi nelle 32 unità delle Parroquias. La parte coloniale della città è bellissima e molto interessante dal punto di vista storico-artistico, con una gran quantità di monumenti tra chiese, monasteri, cattedrali e palazzi, e con le sue strette viuzze e le piazze che ospitano i coloratissimi mercati tipici della tradizione locale. Il centro storico è il più grande, meglio conservato e meno alterato centro di tutte le Americhe. Non per niente Quito è stata la prima città, assieme a Cracovia, ad essere nominata patrimonio dell'UNESCO nel 1979. Nel solo centro storico della città si trovano circa 40 tra chiese e cappelle, 16 convitti e monasteri e relativi chiostri, 17 piazze, 12 sale capitolari, 12 musei e un non meglio precisato numero di cortili. La produzione artistica di Quito non trova eguali nel nuovo continente e la città ospita quella che è la più importante collezione di arte coloniale d'America, caratterizzata dalla forte presenza di artisti indigeni e meticci. L'architettura è quella tipica del barocco coloniale, ma negli edifici come nell'arte figurativa le influenze sono molteplici, dagli elementi spagnoli a quelli italiani, dagli influssi fiamminghi a quelli precolombiani. La lista dei monumenti da visitare include sicuramente il complesso di edifici affacciati sulla Plaza Grande, a partire dalla Cattedrale di Quito, una delle prime chiese ad essere costruite nell'epoca coloniale – anche se la sua costruzione, avvenuta nel corso di tre secoli, ha riflettuto vari stili, dal gotico al barocco al neoclassico – e poi il Palazzo Arcivescovile, sede della Curia Diocesiana, e il Palazzo di Carondelet, attuale sede del governo. Altri importantissimi monumenti sono la Chiesa della Compagnia (Iglesia de la Compañia de Jesús), una delle più importanti chiese barocche del Sud America, la Basilica del Voto Nacional, la chiesa El Sagrario e le due chiese di San Francisco e San Agustin. Dove la zona coloniale è così ricca di storia e arte, la zona moderna di Quito è invece ricca di alberghi e centri commerciali. Per la movida sono rinomate le zone di La Mariscal e Plaza Foch, con i loro bar, discoteche e night club. Non solo monumenti e vita notturna però, infatti a Quito sarà anche piacevole visitare i numerosi parchi cittadini, come il Parco Metropolitano e il Parco Bicentenario, rispettivamente il più grande e il secondo più grande parco urbano del Sud America, e il Parco La Carolina, anch'esso grandissimo, che contiene al suo interno vari altri parchi e giardini tra cui il Parco Náutico e il Giardino botanico di Quito, e dove si trova anche il Museo Ecuadoriano di scienze naturali. Infine, due occasioni per godere di una vista mozzafiato e scattare foto memorabili: un giro sulla funivia cittadina chiamata TeleferiQo, e una visita alla collina El Panecillo(letteralmente piccolo pezzo di pane), che domina il centro storico. La vetta di questa collinetta di 200 metri tocca i 3.016 metri sul livello del mare e da qui si può avere una suggestiva vista di tutta la città. Secondo gli storici, in epoca Inca sulla cima della collinetta si trovava un tempio dedicato all'adorazione del sole, ma esso venne distrutto con l'arrivo degli spagnoli. Oggi in cima a El Panecillo c'è un'enorme statua della Madonna, curiosamente in alluminio, la Vergine del Panecillo, copia di un originale conservato nella chiesa di San Francisco, sempre a Quito.
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                                L'arte tessile in Perù tra tradizione e modernità

                                La tradizione tessile in Perù ha origini veramente antichissime: grazie al rinvenimento di reperti tessili in vari siti archeologici è infatti possibile datare le prime testimonianze di arte tessile indietro nel tempo fino al 4000/3000 a.C., nel cuore della tradizione Inca. Come dimostra anche l ottimo stato di conservazione dei reperti archeologici, la produzione tessile andina è sempre stata di eccezionale qualità, ma non sempre è stata impiegata per usi moderni come la fabbricazione di abiti, ma piuttosto per usi narrativi e comunicativi; con complessi intrecci di fili colorati si potevano infatti tramandare antichi saperi e conoscenze e narrare vere e proprie cosmogonie. Per secoli l arte tessile ha continuato ad essere praticata secondo modalità assolutamente naturali e artigianali. Le pregiatissime lane di alpaca e le altrettanto pregiate qualità di cotone (come il morbidissimo e lucente cotone di Pima) vengono lavorate a mano o con telai meccanici a cintura o a pedale, e tinte esclusivamente con estratti naturali. La qualità delle lavorazioni tessili è innegabile, e nel corso del tempo la tessitura si è affermata come pilastro dell artigianato peruviano. Le comunità rurali ancora mantengono orgogliosamente i propri motivi e colori, e qui la tessitura è una fonte di sostentamento.
                                Intorno agli anni ‘50, l artigianato peruviano si è trovato in un momento se non di svolta quantomeno di radicale evoluzione. In questo periodo infatti, grazie all interesse di missionari religiosi e a campagne di solidarietà internazionali, l artigianato locale si è affacciato sui mercati internazionali, creando, senza particolari piani di sviluppo ma semplicemente in risposta alla domanda del mercato, prodotti artigianali destinati alla vendita esterna. Ad aumentare, negli anni a venire, la domanda di prodotti artigianali, il boom del turismo, che creò occasioni per facili guadagni per chi si proponeva come intermediario in questi scambi commerciali. Questi guadagni erano spesso fatti sulla pelle degli artigiani, sfruttati per un pugno di mosche, e per arginare questo malaffare il governo peruviano creò nel 1982 l organizzazione Allpa per aiutare gli artigiani a commerciare in maniera equa. Gli squilibri economici causati dal boom del turismo sono anche dietro alle vicende del villaggio di Ccaccaccollo, sulla Valle Sacra peruviana. L arrivo di visitatori stranieri incentivò infatti le attività turistiche, con alberghi e ristoranti di lusso che hanno fatto la fortuna di molte città. Ma mentre alcuni si arricchivano in altre zone la povertà dilagava, con le popolazioni native costrette a lasciare le proprie terre e a cercare di sbarcare il lunario come venditori ambulanti. Ed è così che molte donne di Ccaccaccollo erano finite a vendere bigiotteria a Crusco, ma nel 2005, grazie alla fondazione Planeterra per lo sviluppo sostenibile, queste hanno riscoperto il valore delle proprie tradizioni e hanno iniziato a commerciare vestiti di alpaca prodotti artigianalmente. Dopo uno sfortunato incidente dovuto a cause naturali che aveva portato alla distruzione del laboratorio-fabbrica di Ccaccaccollo nel 2007, questo è poi stato ricostruito, consentendo la rinascita del commercio di filati e la preservazione della tecnica di filatura artigianale per le generazioni future.
                                Oggi l antichissima tradizione tessile del Perù, che pure sopravvive nelle realtà artigianali sopra descritte, conosce anche una dimensione d alta moda, come testimonia la manifestazione Perumoda che si svolge ogni anno a Lima, l evento più importante dell anno per tutta l industria della moda della nazione. La manifestazione raduna sia le aziende autoctone sia quelle straniere che importano i prodotti locali, ma la sua vocazione è quella di vetrina per gli stilisti peruviani emergenti. E ce ne sono. Qualche nome: Sumi Kujòn e Gerardo Privat, ingegnosa interprete della tradizione la prima e creatore di preziose collezioni dai materiali pregiati il secondo, e poi Ani Alvarez Calderon, uscita dalla Rohde Island School di New York e contaminatrice di stili e tradizioni diverse, e ancora Ana Maria Guiulfo, profonda conoscitrice della cultura e dell arte peruviane.
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                                  Il Parco Nazionale di Manu in Perù è il tempio della biodiversità

                                  È nella parte meridionale del Perù, tra le regioni di Cusco e Madre de Dios, che si trova il Parco Nazionale del Manu, bene naturale protetto dall UNESCO. Il parco, con un estensione di 17162,95 km², ospita un gran numero di specie animali e vegetali, alcune delle quali a rischio estinzione, e a causa di questa sua straordinaria biodiversità esso è stato dichiarato dall UNESCO prima, nel 1977, Riserva della Biosfera e poi, nel 1980, Patrimonio dell Umanità.
                                  Il parco occupa tutta l area del bacino del fiume Manu e ha una topografia ricchissima grazie alle significative variazioni di altitudine che occorrono nell area. Si passa infatti dai 350 metri sul livello del mare nell area del parco che si trova nella Foresta Amazzonica occidentale, col suo specifico habitat da foresta pluviale quindi, agli ambienti della Yunga peruviana ad altitudini medie, e alle praterie e boscaglie montane quando si raggiungono i 4200 metri d altitudine sul versante orientale della Cordigliera delle Ande. Questa varietà topografica si traduce, come si è detto, in un livello di biodiversità tra i più alti di tutti i parchi del mondo.

                                  Per quanto riguarda la fauna, si contano più di 220 specie di mammiferi, come la tigre nera, la scimmia choro comune, il cervo delle Ande, la maquisapa nera, il gatto delle Ande e molti altri, e poi 68 rettili, 77 di anfibi e circa 210 tipi di pesci. Anche gli uccelli sono numerosissimi (si parla di 800 specie) e si vorrà dunque prendere in considerazione il parco di Manu come meta per le vacanze se si è grandi appassionati di birdwatching. Tra farfalle, formiche, libellule e scarafaggi poi, si superano le 2300 specie di insetti, con molte specie ancora da classificare. Una menzione a parte tra gli ospiti del parco va fatta per l ornitorinco: non una specie indigena del Perù, venne introdotta nel 1965 dagli aborigeni australiani che volevano commerciare con i peruviani, e si è ambientato perfettamente nel parco naturale.

                                  La varietà nell altitudine, nel microclima e nel terreno del parco si riflette anche sulla flora, ricchissima e varia. Qui è possibile ammirare anche la conifera argentina, che occupa circa un ettaro del territorio del parco. L impenetrabilità del parco e l enorme eterogeneità della flora rendono di difficile classificazione le varie specie di piante ospitate. Le stime variano tra le 2000 e le 5000 specie vegetali. Per dare un idea della diversità naturale basti pensare che in un solo ettaro di terreno è possibile trovare anche 220 diverse specie.
                                  Un ruolo chiave nell eccezionale preservazione dell incontaminato ecosistema del parco lo ha giocato senz altro il suo isolamento. Il parco è infatti difficilmente accessibile per la sua conformazione e posizione, e comunque ai turisti è consentito entrare soltanto in apposite aree. L unica presenza umana all interno del parco sono le numerose ma picole comunità contadine di lingua quecha e le varie tribù amazzoniche native, come i Matsiguenka, gli Yine, gli Amahuaca, i Nahua, gli Amarakaeri e gli Huashipaire. Un regime di protezione dell area del parco ebbe inizio formalmente nel 1968 quando il parco venne dichiarato riserva naturale, stato poi confermato e rafforzato dai successivi riconoscimenti UNESCO. Oggi il parco è diviso invarie zone ad accesso regolamentato, di cui la più ampia è la Restricted Zone, dedicata esclusivamente alla preservazione del patrimonio ambientale e inaccessibile, se non per qualche concessione ai ricercatori e alle comunità indigene. A proposito di ricerca, nel parco ha sede uno dei più importanti e famosi centri di ricerca dell Amazzonia, ovvero la stazione biologica di Cocha Cashu.

                                  Guardando al futuro del parco è chiaro che la sfida per la preservazione si fa più intensa e difficile. Con il mutamento delle aree circostanti (costruzione di nuove strade, esplorazioni per l estrazione di gas naturale) sarà ancora possibile mantenere l isolamento e lo stato incontaminato di cui il parco ha goduto? Quale sarà l impatto del progressivo aumento delle popolazioni indigene e dei loro bisogni? A queste ed altre questioni dovrà essere data risposta se si vorrà continuare a conservare un patrimonio naturale dal valore inestimabile.
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                                    Il Grande Tempio Cao Dai, religione-macedonia per la pace e la tolleranza

                                    Il Cao Dai o Caodaismo è un movimento religioso dalla storia molto recente, risultato della fusione di vari elementi originari di culti tradizionali sia orientali che occidentali, quali taoismo (da cui derivano i rituali occulti), confucianesimo (per i suoi precetti etici), buddismo (per concetti come il karma e la reincarnazione), e poi anche shintoismo, induismo, islam, ebraismo e cristianesimo. La gerarchizzazione interna è invece tipica della Chiesa Cattolica. Fondato nel 1926 dal funzionario dell'amministrazione coloniale francese Ngo Van Chieu, il Caodaismo è quindi un culto sincretista che si propone di riunire tutte le religioni per promuovere la pace e la tolleranza e venera un unico dio (che è il creatore di tutte le principali religioni) rappresentato come un occhio sinistro con il simbolo dello ying e dello yang nella pupilla.
                                    La santa sede del Caodaismo si trova subito fuori Tay Nihn, non molto lontano da Ho Chi Min, nel sud del Vietnam. Il complesso, che include uffici amministrativi, alloggi per i religiosi e un ospedale dove viene praticata la medicina tradizionale vietnamita, basata sull'uso di erbe mediche, ospita il Grande Tempio del Cao Dai (Thanh That Cao Dai), costruito tra il 1933 e il 1955.
                                    Strutturalmente il tempio ricorda molto una cattedrale cattolica, con la sua grande navata centrale che conduce all'altare e all'abside e le due navate minori ai lati, mentre la facciata è affiancata da due torri a pianta quadrata; dal punto di vista estetico però non potrebbe esserne più lontana, con decorazioni, sia all'interno che all'esterno, piuttosto stravaganti. Dalle colonne-drago ai cobra a sette teste, tutta la decorazione del tempio fa riferimento a complesse simbologie e numerologie, mentre per la scelta dei colori prevalgono il giallo, il blu e il rosso, rappresentanti rispettivamente buddismo, taoismo e confucianesimo.

                                    La navata centrale è divisa in nove sezioni, ognuna delle quali termina con un piccolo gradino, a rappresentare i nove gradini della scala per il paradiso. Al termine della navata, in alto, si trova una cupola che rappresenterebbe il paradiso, e sotto di essa una sfera blu recante il simbolo dell'Occhio Divino.
                                    Visitando il tempio non si vorrà certo perdere il momento della vera e propria cerimonia, da osservare nel massimo rispetto, con i fedeli che pregano seduti a terra in file ordinatissime e tutti vestiti nelle caratteristiche tonache bianche. I preti e gli ordinati di grado superiore hanno vesti colorate gialle, blu o rosse a seconda della loro inclinazione (blu per il pacifismo e il taoismo, giallo per la virtù e il buddismo, rosso per l'autorità e il confucianesimo), mentre i vescovi sono riconoscibili grazie al simbolo dell'Occhio Divino ricamato sulle vesti.

                                    Ogni giorno si tengono quattro cerimonie, alle 6 del mattino, a mezzogiorno, alle 18 e a mezzanotte. Le cerimonie sono cantate e accompagnate da un'orchestra di dieci musicisti. Per entrare nel tempio bisogna vestire in maniera rispettosa, con gonne e pantaloni sotto al ginocchio, scoprire il capo e abbandonare le scarpe.
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                                      La fascinosa Casablanca, metropoli moderna con un pizzico di storia

                                      Casablanca non sarà forse alla pari delle altre città del Marocco per ricchezza del patrimonio storico-artistico, ma è senz'altro ben presente nell'immaginario europeo, e occidentale in generale. Un grande peso nella fama della città lo ha sicuramente giocato il film Casablanca, basta infatti sentire il nome della città e subito vengono alla mente le suggestive atmosfere del classico hollywoodiano. Ma se ci lasciamo alle spalle l'epico romance in bianco e nero di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman e guardiamo all'odierna Casablanca troviamo una città moderna e cosmopolita, certo molto diversa dalle altre città del Marocco.
                                      È una città relativamente giovane – fu costruita nel 1906 in parte all'interno delle mura originarie dell antica città berbera che lì sorgeva prima di essere rasa al suolo da un terremoto – simile ad una metropoli dell'Europa meridionale, con i suoi quattro milioni di abitanti che la rendono la città più popolosa del Marocco. Si dice in realtà che in Marocco ci siano quattro capitali: secondo questa visione Rabat – cioè la vera capitale del Paese - sarebbe considerata la capitale amministrativa, e Marrakech e Fes rispettivamente capitale culturale e capitale spirituale , lasciando a Casablanca il titolo di capitale finanziaria. E a ragione, se consideriamo che è qui che si trova il maggior numero di industrie e servizi del Paese e che si registra il più alto reddito nazionale. La borsa di Casablanca è inoltre la quarta piazza finanziaria africana per importanza e qui si concentra il 30% della rete bancaria marocchina.

                                      Questo non significa però che la città manchi di luoghi di interesse storico e artistico o semplicemente belli da visitare! Se amate le passeggiate sulla spiaggia e i tramonti romantici la zona marittima di Ain Diab è una tappa obbligatoria, dove potrete anche prendere parte alla vita notturna della città. Dal punto di vista culturale invece, l attrattiva numero uno di Casablanca è probabilmente la grande Moschea di Hassan II, nientedimeno che la più grande moschea di tutta l Africa e la settima nel mondo.

                                      Quasi altrettanto famosa è la Cattedrale del Sacro Cuore,risultato di una mescolanza di elementi neo-gotici e Art Decò, più elementi tipici dell architettura marocchina. In seguito all ottenuta indipendenza del Marocco la chiesa è stata sconsacrata, ed è forse per questo che, al contrario dell esterno dell edificio, sempre impressionante e ammirabile, gli interni risultano oggi un po trascurati. Rinomati sono anche i freschi giardini del Parc de la Ligue Arabe, dall impostazione tipicamente francese, e il Palazzo Reale, chiuso però alle visite. Come in molte altre città nordafricane troviamo poi, nell entroterra, la medina, con il caratteristico souk, dove immergersi per un assaggio del Marocco più tradizionale .
                                      Simbolo invece del lato più moderno e metropolitano della città è il Casablanca Twin Center: due torri gemelle da 28 piani l una che ospitano negozi, uffici e alberghi di lusso. Nella B Tower, anche detta East Tower (in contrapposizione alla A Tower/West Tower) si trova il Kenzi Tower Hotel voluto da Geddafi, con le sue 210 camere da letto e 27 suite, inclusa la lussuosissima Casablanca Royal Suite. Mentre la A Tower ospita per lo più negozi e uffici, nella B Tower si può cenare nel ristorante panoramico al ventisettesimo piano, oppure bere un cocktail sulla terrazza del bar Sky 28, all ultimo piano, che offre una vista mozzafiato sulla città.

                                      Storia e modernità vanno insomma a braccetto, e qui a Casablanca si può apprezzare la bellezza dei siti storici senza rinunciare ai vantaggi di trovarsi in una città cosmopolita e all avanguardia, dai servizi efficienti e dalla piacevole vita mondana.
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                                        La Moremi Game Reserve, area protetta sul delta dell'Okavango

                                        Una delle più belle riserve di caccia, non solo del Botswana ma di tutto il continente africano, è la Moremi Game Reserve, situata sul lato orientale del delta dell'Okavango. È importante sottolineare fin da subito come questa, all'epoca della creazione nel 1963, sia stata specificatamente designata come riserva di caccia e non come parco nazionale, in modo che le tribù storicamente presenti nell'area potessero continuare a viverci.
                                        La Moremi Game Reserve fu la prima riserva africana voluta dagli abitanti del luogo, ovvero la tribù BaTawana, preoccupata per l'impoverimento della fauna selvatica. L'iniziativa fu portata avanti dalla terza moglie del defunto capo tribù Moremi, da cui la riserva prende nome.
                                        Con questa riserva il governo del Botswana ha voluto portare avanti un'idea di eco-turismo che non privilegiasse eccessivamente i guadagni a scapito dell'impatto ambientale. Pertanto si ha qui la possibilità di venire a contatto con la parte più incontaminata e autentica del continente africano. La stessa riserva ha pochissimi lodge e solo qualche area per il campeggio (ma i visitatori che vogliono visitare il parco possono trovare alloggio nei lodge alla periferia della riserva).

                                        La Moremi Game Reserve è l'unica area protetta nella regione del delta dell'Okavango e pertanto è fuor di dubbio la sua importanza naturalistica. Grazie all'incontro tra terra e acqua che avviene nel delta, ambienti più secchi si alternano a boschi e lagune, per una discreta varietà di habitat, considerate le dimensioni non eccezionali della riserva (quasi 5000 km²). E proprio questa varietà la rende così appetibile agli occhi dei turisti, che possono qui ammirare un gran numero di specie animali selvatiche, inclusi ovviamente i famosi Big Five africani (elefante, leone, leopardo, rinoceronte, bufalo) e praticamente tutte le più diffuse specie, sia erbivore che carnivore, della regione, come giraffe, iene, impala, zebre e sciacalli.
                                        Inoltre come sanno bene gli amanti del bird-watching, la Tanzania è una sorta di terra promessa per gli appassionati, e l'area della Moremi Game Reserve non fa certo eccezione: sono presenti quasi 500 specie di volatili delle più varie, alcune delle quali anche in via d'estinzione. A proposito di specie protette, nella riserva abita anche il licaone, sotto tutela fin dal 1989, e sia il rinoceronte bianco che quello nero sono stati recentemente reintrodotti nel parco.

                                        Come spesso è il caso per i parchi africani, la stagione migliore per visitare la Moremi Game Reserve è da Luglio a Ottobre, quando le pianure alluvionali stagionali si vanno per asciugare e la fauna selvatica si raduna attorno alle acque permanenti, luoghi strategici per avvistare gli animali nei vostri safari. Le escursioni potranno compiersi a bordo di veicoli 4x4 o per mezzo delle più caratteristiche imbarcazioni mekoro, tradizionali piroghe realizzate con tronchi d'ebano, guidate da guide esperte.
                                        Un'ultima raccomandazione prima della partenza: considerata la massiccia presenza di pozze d'acqua e vari ambienti palustri nel parco, l'intera zona è un ambiente ideale per le zanzare malariche; si raccomanda quindi ai viaggiatori di prendere tutte le precauzioni del caso.
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                                          Dipingere l'Africa: lo stile tingatinga

                                          Colori brillanti e piatti, disegni semplici, materiali poveri: queste sono in linea generale gli aspetti che caratterizzano le opere accomunate, dal momento della nascita dello stile negli anni '60 fino a oggi, sotto il nome di stile tingatinga.
                                          Questo genere pittorico, visivamente accattivante e vicino per temi alle correnti europee naïf e surrealiste, fece facilmente presa sui viaggiatori occidentali, che comprarono fin da subito ben volentieri le opere degli artisti locali. Eppure quest'arte da turisti , tanto obbligata sul piano della forma a rispondere a certi criteri di commerciabilità, ha saputo anche evolversi al passo con la società tanzaniana, della quale ha saputo interpretare le trasformazioni. L'eredità del fondatore Edward Said Tingatinga (da cui lo stile evidentemente prende nome) fu raccolta da una scuola che continuò a seguirne la poetica, e grazie sicuramente anche al successo commerciale dello stile, quest'arte dalle umili origini è finita con l'essere, oggi, senz'altro l'espressione artistica più rappresentativa della Tanzania.
                                          Si diceva delle umili origini di quest'arte, e infatti quando negli anni Sessanta cominciò a dipingere, Edward Said Tingatinga era un uomo con un'istruzione elementare che lavorava come domestico per un funzionario britannico nell'area di Dar es Salaam: la sua vocazione artistica, che cercò in un primo momento sfogo in campo musicale, trovò il suo mezzo espressivo in materiali poveri e in uno stile semplice. Nei suoi primi lavori trovarono posto animali rappresentati con forme stilizzate e fantastiche, dipinti su materiali di scarto, pezzi di legno o masonite, con vernice per biciclette. L'uso degli accesi colori degli smalti per telai, dettato dalle necessità, divenne poi caratteristico dello stile tingatinga: gli smalti non diluiti donavano alle opere una caratteristica lucidità e la densità dei colori aggiungeva una dimensione plastica alle campiture a causa della sovrapposizione dei vari strati di vernice.

                                          Il successo commerciale dello stile tingatinga ne ha esteso la popolarità in altri paesi africani: sia in Tanzania che nei paesi limitrofi, molte opere vengono vendute come tingatinga sfruttando la fama della scuola. Ovviamente solo una parte minoritaria di queste è effettivamente l'opera di artisti appartenenti alla scuola originale. La necessità di creare opere appetibili per i turisti ha contribuito a caratterizzare in maniera ben definita l'arte tingatinga: opere di piccole dimensioni, facilmente trasportabili in aereo, recanti immagini che rimandano all'Africa così come percepita nell'immaginario europeo (gli animali selvaggi sono i soggetti più rappresentati), o anche decorazioni su oggetti di arredamento apprezzati come souvenir.
                                          Rimane aperto a discussioni se l'arte tingatinga sia uno stile totalmente originale oppure legato ad precedenti tradizioni artistiche, e, nel caso, quali queste siano. Affinità sono probabilmente da ricercare nell'arte della costa orientale dell'Africa, dove si può ritrovare quel bisogno caratteristico dell'arte tingatinga di riempire totalmente lo spazio a disposizione dell'artista, in questo caso con le fantasie tipiche della cultura Swahili. Le speculazioni sul fatto che prima di cominciare con i lavori portatili su basonite Tingatinga avesse eseguito dei dipinti su parete, collegherebbero inoltre la sua arte alle tradizionali pitture murarie delle tribù Makua e Makonde, da cui il pittore stesso discenderebbe.
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                                            La cucina sudafricana: un arcobaleno di sapori

                                            Il Sudafrica è noto per essere un paese multiculturale, dove alle tradizione africana si affiancano influenze non solo europee (olandesi, inglesi, portoghesi) ma anche asiatiche. Questa multiculturalità si riflette nei vari ambiti della vita quotidiana della nazione e ovviamente anche a tavola! La cucina sudafricana è infatti il risultato della commistione dei diversi sapori, odori, colori e tradizioni provenienti dalle varie etnie e culture che hanno disegnato il volto di questa nazione, e proprio come lo stesso Sudafrica essa è dunque variegata, multiforme e coloratissima!
                                            Al centro della tavola sudafricana sta il mais, alimento che per lungo tempo è stato fonte di sostentamento per la comunità nera, e che viene consumato in ogni forma, dai porridge alla polenta, includendo la classica pannocchia arrostita alla brace. La carne alla brace, o come chiamano il barbecue qui, braai, è un altro must della cucina sudafricana, con grigliate che includono i tipi di carne più svariati: non soltanto le pregiatissime carni di bovino - da animali allevati esclusivamente all aperto - paragonabili alle più famose carni argentine, ma anche cacciagione varia e carni più insolite quali struzzo, facocero e persino coccodrillo! La carne è inoltre protagonista anche di molti stufati, preparati secondo la tradizionale, lunga cottura sui carboni ardenti di derivazione boera, che prevede l uso di una padella a tre piedi, il potjie. Nella ricetta del potjiekos la carne è cotta per ore assieme a verdure assortite (carote, cavoli, zucca) e riso o patate. Qui come in praticamente ogni altro tipo di preparazione viene impiegata una gran varietà di spezie profumatissime; il massiccio uso di spezie che caratterizza la cucina sudafricana è un eredità malese, e risale agli albori del periodo coloniale.

                                            Ma un paese come il Sudafrica, bagnato da ben due oceani, non può non aver raffinato l arte di cucinare il pesce, che infatti si può trovare sempre freschissimo praticamente ovunque. Le freddi correnti oceaniche sono ideali per i crostacei, e rendono il Sudafrica la terra promessa degli amanti dell aragosta. In particolare sulle coste, si potranno gustare ostriche, gamberi e aragoste di prima scelta a prezzi contenuti. Consumatissimo è anche il kinglip, un pesce dalle carni sode cucinato al forno, fritto o grigliato, e poi condito con una salsa al burro e limone o al burro e aglio.
                                            Altre diffusissime specialità sono:
                                            biltong: striscioline di carne aromatizzate e essiccate, ideali negli aperitivi;
                                            amadumbe: un purè di arachidi e di patate dolci con burro;
                                            bobotie: un piatto molto particolare e speziato, costituito da carne macinata cotta al tegame con curry malese, limone, zucchero e mandorle e amalgamata con uova sbattute;
                                            mealiepap: un porridge con carne e sugo di cottura della stessa, parte anche della colazione sudafricana, consumato, in questo caso, con latte e zucchero;
                                            sosatie: maiale o agnello tagliati a cubetti e marinati, cotti allo spiedo assieme ad albicocche secche e consumati con il krummelpap (polenta di granturco) o con il riso.

                                            Se invece avete un debole per i dolci allora dovete assolutamente provare i poffertjies, una sorta di pancakes, ma fritti, serviti con una spolverata di zucchero, le koeksister, profumatissime frittelle appartenenti alla tradizione olandese, aromatizzate con cannella, cardamomo e anice, e la melktert una torta con una farcitura al latte aromatizzata con cannella.

                                            È inoltre in crescita in Sudafrica la realtà vinicola locale, che ha raggiunto punti di eccellenza riconosciuti anche da critici europei, che considerano la produzione sudafricana alla pari della nostra. Oltre a vini bianchi e rossi vengono distillati anche grappe, liquori e birre, quest ultime consumatissime in particolare nelle varietà più leggere e chiare.
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                                              Esperimenti di economia solidale a Salinas de Guaranda

                                              Il territorio di Salinas de Guaranda, nella provincia del Bolivar, Ecuador, comprende il villaggio di Salinas e le varie frazioni distribuite nelle aree circostanti, e si estende dai 600 agli oltre 4000 metri di altitudine, arrivando a contare 10000 anime. Nel 1971 arrivarono qui un gruppo di salesiani e volontari dell'operazione Mato Grosso, intenzionati a portare avanti attività di sostegno sociale. All'epoca il villaggio era in condizioni di estrema arretratezza e povertà – non c'erano nemmeno acqua potabile o strade – ma, grazie all'iniziativa della popolazione indigena e al sostegno dei volontari, Salinas è riuscita a risollevarsi e a svilupparsi all'interno di un discorso di commercio equo e solidale. Si iniziò creando una cooperativa di risparmio, con l'obbiettivo di restituire alla popolazione le terre controllate dai latifondisti, in modo che essa potesse beneficiarne direttamente. Le attività sono poi proseguite e cresciute negli anni: un particolare impulso al commercio venne dato nel 1982 dalla FUNORSAL (Fundacion de Organizaciones Campesinas de Salinas), una fondazione creata per coordinare le varie organizzazioni. Il riscatto di Salinas si è fondato dunque sulle risorse proprie del territorio e sulla forza dei suoi abitanti, ed è così che si è arrivati ad un modello di sviluppo che fa perno sul valore della comunità. Nel 2006 vari gruppi di produttori e agricoltori si sono riuniti nella cooperativa del Gruppo Salinas, che conta al suo interno sei organizzazioni impegnate nella produzione e nel commercio di prodotti tipici, oltre che nel turismo responsabile – che porta i turisti a scoprire il vero volto dell'Ecuador – e in attività sociali. Considerate le significative variazioni di altitudine dei territori interessati, le varie comunità del Gruppo Salinas lavorano in climi e ambienti molto diversi tra loro, da cui conseguentemente escono prodotti dei più vari: fondamentalmente si tratta di prodotti alimentari, a cominciare dai formaggi e dagli insaccati che vengono venduti localmente, per continuare con infusi, torroni, oli essenziali, funghi secchi, zucchero, confetture, caffè e cacao, che vengono esportati all'estero. L'Italia è uno dei primi compratori del marchio Salinerito, simbolo di prodotti di qualità e soprattutto etici.
                                              In aggiunta ai prodotti alimentari, molto importante è poi la produzione di filati e vestiario lavorato artigianalmente, come i caratteristici poncho di alpaca, e poi maglioni, sciarpe, cappelli, e così via. Ad esempio del valore sociale del modello di sviluppo qui applicato si può portare la Asociación de Desarrollo Social de Artesanas Texal , una comunità di donne, quasi tutte analfabete, creatasi nel 1976: queste donne non avevano mai avuto un'occupazione, ma con il loro impegno, unito a dei corsi di formazione ad hoc, hanno potuto sviluppare una loro professionalità. Le loro creazioni, abiti e accessori realizzati con materiali naturali e tecniche tradizionali, sono prodotti di qualità esportati con successo all'estero. A Salinas valgono i principi dell'economia solidale, i ricavi delle vendite vengono reinvestiti nelle cooperative stesse e utilizzati per progetti a carattere sociale. La crescita economica e il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione procedono di pari passo: il coinvolgimento diretto nel lavoro e nei benefici da questo derivati fa sì che gli abitanti si sentano cittadini attivi e responsabili, parte viva della propria comunità.
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                                                Tutte le forme dell'arte: il National Arts Festival in Sudafrica

                                                Guardando alla quantità di festival, fiere, sagre e celebrazioni assortite che hanno luogo ogni anno in Sudafrica una cosa appare subito chiara: i Sudafricani sanno come divertirsi. Praticamente ogni centro urbano ha la sua carrellata di eventi distribuiti nel corso dell'anno, feste e sagre che comprendono rappresentazioni e spettacoli pittoreschi e variegati. Un ruolo di primo piano in queste celebrazioni spetta al cibo e, in misura forse anche maggiore, alla musica.
                                                Una delle manifestazioni più famose della nazione è, a ragione, il National Arts Festival (NAF) che ha luogo nella città universitaria di Grahamstown. Per dare un'idea del peso della manifestazione, basterà dire che è la più importante occasione di celebrazione delle arti dell'intero continente. Il programma del festival, organizzato con cadenza annuaria a cavallo tra giugno e luglio, include infatti una grande varietà di espressioni artistiche, a cominciare dalla musica, con il jazz a farla da padrone, per passare poi al teatro nelle sue varie declinazioni, al cinema, al balletto e al cabaret, alle mostre d'arte e dell'artigianato, e finire poi con una serie di attività accessorie quali workshop, tour della città e lezioni, più una sezione interamente dedicata ai bambini. Grazie all'ampia offerta di attività più o meno legate al mondo dell'arte, durante le 11 giornate del festival la piccola città universitaria viene invasa da visitatori e artisti provenienti da ogni parte del mondo.

                                                Ciò che rende così speciale l'NAF è probabilmente il peculiare clima di libertà e fervore culturale che qui si respira. Nel corso della storia il festival ha sostenuto l'importante ruolo di roccaforte del pensiero libero, grazie ad una politica di inclusività (il festival è sempre stato aperto a chiunque a prescindere da razza, sesso, religione, ecc.) e di censura zero sulle opere presentate che questo ha perseguito. Si capisce quindi facilmente come in periodi di tensione politica, quali furono gli anni dell'apartheid, esso costituì un focolaio di proteste e discussioni politiche e come ancora oggi esso sia una culla per le avanguardie artistiche e un'incubatrice di nuove idee.

                                                Dal 1974, anno inaugurale, il festival è stato regolarmente celebrato ogni anno, fatta eccezione per il 1975, e da allora ha continuato a crescere e svilupparsi, ospitando sempre più artisti e performance. La manifestazione ha inoltre cercato di ampliare ulteriormente il suo impatto puntando a darsi anche un valore sociale, ad esempio mettendo in contatto i giovani manager artistici con professionisti che potessero istruirli, oppure istituendo corsi speciali per ragazzi provenienti da realtà disagiate o ancora con il volontariato degli artisti in strutture quali ospedali, cliniche e case di riposo.
                                                Il festival avrà luogo quest'anno dal 30 giugno al 10 luglio; sul sito ufficiale, in inglese, si possono trovare ulteriori informazioni su questa importante manifestazione, inclusa una dettagliata sezione Travel & Stay.
                                                *Tutte le immagini nell'articolo provengono dal sito ufficialehttps://www.nationalartsfestival.co.za/
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                                                  Tesori sepolti e pirati: l'avventurosa storia di Moyenne Island

                                                  L Isola di Moyenne è un minuscolo paradiso all interno del Parco Marino di Sainte Anne, nelle Seychelles, 6 km ad est di Mahé, la più grande delle isole dell arcipelago. L isola ha una storia particolare ed interessante, che sembra uscita da un romanzo (anzi, più romanzi!) d avventura.
                                                  Nel 1962 infatti, un signore inglese di nome Brendan Grimshaw, comprò l isoletta per 8000 sterline. All epoca dell acquisto Moyenne Island era deserta, senza acqua potabile e completamente ricoperta da una vegetazione fittissima. Novello Robinson Crusoe, Grimshaw iniziò con l aprire dei sentieri nella vegetazione per rendere possibile lo spostarsi all interno dell isola. Con l aiuto di un collaboratore nativo delle Seychelles, Rene Antoine Lafortune (il Venerdì della situazione), Grimshaw piantò circa 16000 alberi, introducendo piante di mango, papaia e numerose altre specie di alberi da frutta e palme, e reintrodusse le tartarughe di terra.Dopo vari tentativi riuscì a portare sull isola anche alcune specie di uccelli - inizialmente non v era traccia di volatili - nutrendoli, e oggi Moyenne è talmente preziosa dal punto di vista naturalistico da meritare di essere riconosciuta come parco autonomo, il Moyenne Island National Park, sebbene l isola si trovi appunto all interno del Sainte Anne.

                                                  Quando Grimshaw comprò l isola questo non era certo il suo scopo, e le migliorie apportate a Moyenne non dipendevano da altro se non che dalla necessità di rendere l isola abitabile per egli stesso, eppure Grimshaw si è accidentalmente trovato a custodire un tesoro naturalistico, tesoro che si è poi sempre rifiutato di vendere al migliore offerente nonostante le numerose e generose offerte ricevute. Come il protagonista del romanzo di Dafoe, Grimshaw, lontano dalla patria civilizzata , si è costruito per se stesso una nuova casa, grazie al duro lavoro e allo spirito d iniziativa, e nella preservazione del suo angolo di paradiso ha trovato uno scopo di vita; prima di morire all età di 87 anni, alla domanda se si fosse mai sentito solo, l inglese rispose: Sì una volta, quando vivevo in un monolocale a Londra. Quando vivevo lì mi ero triste, ma qui non lo sono .
                                                  Ma Moyenne non è solo la casa di un Crusoe post-moderno, ma anche di veri e propri pirati del XVII secolo! Circolano infatti numerose storie e leggende sul fatto che l isola fosse un covo di pirati, teoria a dimostrazione della quale vi sarebbero le tombe presenti sull isola, che si crede appartengano a dei pirati. Dalle storie in circolazione spicca il nome del pirata Olivier Le Vasseur, che avrebbe costantemente depredato le imbarcazioni che navigavano l Oceano Indiano negli anni ‘20 del XVIII secolo, per finire poi impiccato nel Luglio del 1730. In puro stile piratesco prima di morire Le Vasseur avrebbe gettato tra la folla dei documenti contenenti una serie di indizi su come trovare il suo tesoro, un bottino ricchissimo di cui avrebbe fatto parte anche la Fiery Cross of Goa, un tesoro di cui, se veramente esistesse, sarebbe difficile calcolare il valore, se davvero come dicono le storie essa era interamente tempestata di diamanti, rubini e smeraldi, e talmente grande e pesante da richiedere la collaborazione di tre uomini per trasportarla.

                                                  Con un esca così ghiotta non stupisce che ci siano persone che hanno bruciato i migliori anni della loro vita e tutti i loro averi in una ricerca che fino ad oggi non ha dato però alcun frutto. Sempre secondo la leggenda, quando era sul punto di essere impiccato, gettando l involto con gli indizi, il pirata dichiarò profeticamente Che trovi pure il mio tesoro, colui che è in grado! e a tre secoli di distanza nessuno lo è ancora stato.
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                                                    La Festa della Luna ad Hoi An: un incantesimo di luci e colori

                                                    La città di Hoi An è situata nel Vietnam centrale, lungo il fiume Thur Bon, dove le sue case si specchiano a testa in giù. Nata come villaggio di pescatori, nel 1999 l UNESCO l'ha dichiarata Patrimonio dell Umanità.

                                                    Passeggiando per le sue vie, si ha la sensazione che il tempo si sia fermato: niente della città vecchia di Hoi An sembra esser cambiato rispetto al passato, quando la città era, grazie al suo vecchio porto, un importante centro commerciale, sopratutto negli anni tra il XVI e XVII secolo, quando era abitata da comunità cinesi, giapponesi, olandesi ed indiane. Proprio questa mescolanza di culture ha dato alla città il suo stile particolare, una commistione delle diverse influenze, come si può ben vedere nel caso del ponte giapponese collegato a una pagoda buddista, nel centro storico della città, ma anche più semplicemente nello stile architettonico delle abitazioni del quartiere vecchio: case con tetti in stile cinese e balconi in stile europeo e case colonnate di colore giallo, che ricordano lo stile coloniale francese. Sono inoltre riconoscibili le influenze giapponesi nella suddivisione degli spazi interni e così quelle cinesi nelle numerose lanterne rosse. Il centro è visitabile solo a piedi e gli sciami di scooter di Saigon e Hanoi qui sono off-limits, come anche le auto. Hoi An lascia la sensazione di essere un museo all aperto da esplorare a piedi o in bici, disseminato da antichi edifici, lambito da risaie che disegnano geometrie a perdita d occhio. Le vie sono ricche di botteghe e negozi dove si possono acquistare quadri, lanterne e le famose stoffe. La città sembra essere una calamita per i turisti che sono in cerca di storia, tranquillità, ma anche di magia. Ed è di notte che più si percepisce la vera magia di questa cittadina, che al calar del sole sembra davvero trasformarsi in un luogo magico fuori dal tempo, in particolare grazie alle suggestive atmosfere da universo fiabesco evocate dalle affascinanti lanterne illuminate. Queste meravigliose invenzioni sono fondamentali per un importante celebrazione: la festa della Luna, quando, nelle notti di luna piena, la città viene invasa da migliaia di lampioni artigianali. Ogni mese, il quattordicesimo giorno del ciclo lunare, il centro viene chiuso e la corrente elettrica viene sospesa dalle 18.30 alle 23.00 con lo scopo di far brillare queste lucciole colorate, realizzate con strisce di seta e asticelle di bambù. Le lanterne sono appese per le strade, fuori dai negozi, lungo i balconi. Sono leggere come palloncini e illuminano la notte con gentilezza, mosse appena dal vento.
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                                                      Curiosità del Costa Rica

                                                      1. La Costituzione della Costa Rica proibisce l'istituzione di un esercito e di forze militari, quindi, semplicemente, non ce ne sono.  Ma in Costa Rica si trova la corte Inter-Americana dei diritti umani nonché la sede dell'Università per la Pace delle Nazioni Unite.
                                                      2. Spiagge libere e selvagge! Non è possibile edificare lidi attrezzati, case e nessun tipo di infrastruttura a meno di 150 metri dalla costa.  Le spiagge sono tutte libere.
                                                      3. I Ticos sono molto legati alla natura ed hanno con essa un rapporto molto basato sulla quotidianità, come in alcuni paesi del Nord Europa.  Una delle attività più praticate è il canopy tour: volo da un albero all altro della foresta, con ponti e imbracature.
                                                      4. Se pensi che gli italiani siano ritardatari, devi sapere che in Costa Rica è considerato quasi socialmente inopportuno arrivare ad un appuntamento con meno di mezz'ora di ritardo.  Quindi, quando gli amici si incontrano per mangiare fuori, i primi che arrivano iniziano ad ordinare e mangiare e gli altri man mano si accodano.
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                                                        Lo spettacolare vulcano Arenal


                                                        Il Vulcano Arenal e le Terre Basse del Nordest sono considerati da molte persone una delle regioni più spettacolari del paese; ciò è dovuto anche al fatto che questa sia una delle destinazioni turistiche più famose della Costa Rica.  Il Vulcano Arenal è uno dei dieci vulcani più attivi del mondo ed espelle quotidianamente rocce e cenere dalla sua cima spargendole nell'area circostante, offendo allo stesso tempo una vista maestosa.  Ha delle eruzioni costanti e si può ascoltare il fragore ed osservare la lava che scivola sui fianchi del vulcano.  Il posto migliore per ammirare i fuochi artificiali naturali del Vulcano Arenal è il paesino La Fortuna, un piccolo paese situato ai piedi del vulcano.  La Fortuna è il posto più adatto per farsi affascinare dalla particolare bellezza della zona, un luogo turistico che mantiene salde le sue tradizioni costaricane.  Le acque termali e gli hotel consentono inoltre di rilassarsi attorniati da stupendi giardini di orchidee.

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                                                          Queensland in breve

                                                          Quando si supera il confine del Queensland, il tempo inizia a scorrere più lentamente e il paesaggio assume un aspetto più languido. Questo Stato immenso offre una varietà stupefacente di paesaggi e habitat: dalle spiagge della Sunshine Coast alle foreste pluviali di Daintree, dalla Grande Barriera Corallina all'interno, dove si estendono le distese deserte e assolate dell'outback, immensi spazi incontaminati a perdita d'occhio. Il soprannome del Queensland è "Sunshine State" perchè ad eccezione della stagione umida gode di un clima invidiabile con ben 300 giorni di sole all'anno e un cielo quasi sempre sereno. Cibo: cicale di mare, scampi e pesce barramundi, Rockhampton Steak (bistecca di manzo), manghi, banane, noci di macadamia Bevande: Boccale di birra Four X, rum Bundaberg, vini Granite Belt Letture: Vola Via di David Malouf, It's Raining in Mango di Thea Astley, Praise di Andrew McGahan, E morì con un falafel in mano di John Birmingham Film: Mr Crocodile Dundee (1986), Getting'Square, La Sottile linea rossa (1998), Scooby Doo (2002), Ore 10: calma piatta (1989) Da evitare: Surfers Paradise durante la festa studentesca di Schoolies Week, i rospi della canna da zucchero, le scottature, le meduse Soprannome degli abitanti: Cane Toads (rospi giganti della canna da zucchero), Banana Benders (piegatori di banane) Dove nuotare: al McKenzie Lake e al Wabby Lake a Fraser Island, alle spiagge di Peregian Beach e Noosa Beach sulla Sunshine Coast, a Great Keppel Island e presso la Grande Barriera Corallina Manifestazioni curiose: Festa del salvamento a Kynuna (nell'outback), ad aprile, e le Cockroach Races, gare di scarafaggi, presso lo Story Bridge Hotel di Brisbane in occasione dell'Australia Day (26 gennaio), Festa Nazionale della Birra di Brisbane a metà settembre Attrazioni turistiche stravaganti: il Big Pineapple ossia il "grande ananas" seguiti dal Big Mango (grande mango) e dal Big Gumboot (grande stivale)
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                                                            Parchi Nazionali

                                                            I parchi nazionali americani costituiscono un museo vivente di storia naturale e culturale, un gigantesco campo da gioco in cui tutti possono godere, dai nonni ai bambini sui sentieri didattici fino agli scalatori che si arrampicano sulle pareti dei canyon. All'interno dei parchi si snodano migliaia di chilometri di sentieri escursionistici adatti a ogni tipo di esigenza, sarà sufficiente fermarsi al Visitor Center all'ingresso del parco stesso per poter chiedere consiglio ai ranger e recuperare materiale informativo sul parco e sui percorsi.  D'estate è molto importante perchè a causa del caldo alcune escursioni potrebbero essere sconsigliate, oppure potreste scegliere di percorrerle solo al mattino presto prima che le temperature diventino insopportabili.  Spesso è possibile partecipare a programmi gestiti e accompagnati da un ranger, in questo caso si tratta di attività a pagamento e che vanno prenotate con un certo anticipo per cui se siete interessati dovrete pianificare con attenzione il vostro viaggio e recarvi sul sito ufficiale del parco per controllare le disponibilità delle attività. Prima di visitare un parco nazionake controllate il relativo sito web, utilizzando il motore di ricerca sulla home page del NPS www.nps.gov.  Potrete racccogliere informazioni sui percorsi stradali, orari di apertura, praticabilità delle strade, condizioni dei sentieri, campeggi e altre strutture ricettive.  All'ingresso del parco dovrete pagare in contanti, le tariffe variano molto e se decidete di visitare più parchi potrebbe essere conveniente acquistare la tessera annuale America the Beautiful, costa circa USD $80 e con questa formula quattro adulti possono entrare gratuitamente per un anno in tutti i parchi nazionali e nelle aree ricreative federa.  Cicloturismo e mountain bike In quasi tutti i parchi nazionali è vietato andare in mountain bike sui sentieri, ma si può circolare lungo i percorsi sterrati riservati ai fuoristrada, come quelli in mezzo alla natura del Capitol Reef NP, nello Utah, e del Joshua Tree NP.  I cicloturisti troveranno sentieri e circuiti panoramici riservati all'interno dei parchi, per esempio lungo il percorso storico nel Cuyahoga Valley NP.  Le biciclette sono l'ideale anche per stare lontano dalle zone più congestionate dei parchi, come il Grand Canyon Village e la Yosemite Valley, oppure spostarsi dove le auto non sono permesse: South Rim del Grand Canyon, Zion NP, Bryce Canyon NP e Acadia NP.

                                                            Sport invernali
                                                            Nella maggior parte dei parchi nazionali l'alta stagione è in estate, ma anche gli sport invernali attraggono molti visitatori che possono camminare con le racchette da neve, sciare, pattinare e guidare le motoslitte.  Chi è incuriosito e pensa di voler unire un viaggio on the road USA e un po'di sport invernali può anche visitare il nostro sito www.topskiing.it alla sezione Stati Uniti.  Per esempio, potreste considerare un viaggio in Wyoming dove si trovano le stazioni di Grand Targhee e Jackson Hole, a poca distanza dal meraviglioso Grand Teton National Park.

                                                            Arrampicata e canyoning
                                                            L'arrampicata su roccia offre grandi sfide, come le cosiddette big walls , le grandi pareti di granito dello Yosemite NP oppure i massi dello Joshua Tree NP, un vero paradiso per chi ama la roccia, visto che ha più di 8000 vie attrezzate. Gli esperti comunque amano le scogliere affacciate sul mare dell'Acadia. Vi sembra un'impresa impossibile? Porvate il canyoning allo Zion NP, dove invece di salire faticosamente centimentro dopo centimentro potrete scendere in doppia lungo le pareti scoscese o attraversare canyon strettissimi appesa a una corda

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                                                              Utah: uno Stato molto particolare

                                                              Questo Stato ha caratteristiche molteplici e uniche negli Stati Uniti sotto l'aspetto sia geologico siageofrafico: meravigliosi parchi nazionali, montagne dove si possono praticare sport invernali, un immenso lago (Lake Powell) adatto agli sport acquatici estivi e piacevoli cittadine sempre più abitate da tanti americani che considerano le coste (est e ovest) troppo care e sopravvalutate. Basti pensare che in 8 anni la popolazione è aumentata del 22%! Inoltre, essi trovano nello Utah una città come Salt Lake City, con una storia e una cultura molto particolari, dove si può vivere bene in mezzo a una bellissima natura intatta. E a proposito di natura, basta pensare ai parchi nazionali di Zion, Bryce, Canyonlands, Arches per rendersi conto che un viaggio in questo Stato è pieno di soprese e luoghi indimenticabili. La presenza dei parchi nazionali è talmente importanteche sulle targhe di alcune automobili appare l'arco più famoso dell'Arches National Park, sormontato dalla scritta "Delicate Arch", un simbolo molto bello.

                                                              Una curiostià di questo Stato è sicuramente legata alla predominanza mormone: fino a luglio 2009 infatti non era concesso bere alcolici liberamente ma era necessario procurarsi la Membership Card (tessera di socio, a pagamento) in particolari locali chiamati private clubs. L'ipocrisia di tale sistema lo rendevacosì anticommerciale e dannoso per l'immagine dello Stato che alla fine è stato soppresso. Restano comunque alcuni casi a sè, cominciando dalla ristorazione: non è possibile bere alcolici senza ordinare pietanze e i ristoranti devono addirittura dimostrare che almeno il 70% delle entrate proviene dal consumo di generi alimentari. E ancora, niente alcol nei supermercati, per acquistare bevande alcoliche bisogna recarsi nei liquor stores controllati dallo Stato.

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                                                                Angkor Wat, il Paradiso di Vishnu

                                                                L appellativo moderno che oggi diamo ad una delle più sensazionali meraviglie oggi ammirabili nel mondo intero risale presumibilmente al XV Secolo, periodo durante il quale una drastica mutazione del culto religioso introdotta dagli siamesi, nuovi dominatori dell area, avvicinò per la prima volta i Khmer al Buddismo Theravada. Il termine Wat , infatti, il lingua siamese significa Monastero (Buddista). Degli innumerevoli templi che gli antichi Khmer laboriosamente edificarono in un arco di tempo di oltre sei secoli a cavallo tra il primo e il secondo millennio, l Angkor Wat è oggi l unico ancora consacrato e ad essere utilizzato quale luogo di culto, appunto del Buddismo Theravada. Ogni anno viene visitato non solo da milioni di turisti provenienti da tutto il mondo ma anche da una nutrita schiera di pellegrini che considerano l Angkor Wat uno dei luoghi più sacri del Sud-est Asiatico. Il suo nome originario era però Vrah Vishnuloka (il Paradiso di Vishnu ) e rappresentava la massima maturazione artistica e spirituale del tardo periodo Induista, principalmente incentrato sul culto di Vishnu che negli animi dei Re Khmer progressivamente rimpiazza il ruolo principale precedente occupato da Shiva. Meraviglia per antonomasia di Angkor, è il luogo che fin dalla sua riscoperta ha scatenato la fantasia e il desiderio del mondo occidentale. Edificato da Suryavarman II nella prima metà del XII secolo, il Vrah Vishnuoka era studiato per rappresentare l intero macrocosmo Induista, con il monte Meru al centro contornato da varie catene montuose (i successivi livelli del tempio ognuno racchiuso da possenti mura) e immensi oceani (rappresentati dal gigantesco canale largo ben 200mt che circonda l intero tempio!). La sua estensione totale è di circa 1500*1300 metri costituendo così l edificio religioso più grande del mondo! Le sculture a bassorilievo realizzate all Angkor Wat includono oltre 2000 Apsaras (ninfe danzanti), Devata (Dee) e Dvarapala (guardiani) ognuna delle quali di eccezionale fattura. Ma le sculture più sensazionali si trovano sulle mura della terza cinta, interamente scolpite lungo tutta la loro estensione (oltre 500 mt!) a rappresentare vari episodi del Mahabarata, del Ramayana e di altre epiche leggende collegabili alle discese sulla Terra ( Avatar ) del Dio Vishnu. Di incommensurabile bellezza sono ad esempio i due pannelli, entrambi ad unico registro, che si trovano sul lato ovest e che rappresentano le battaglie conclusive delle due epopee induiste (la battaglia di Lanka per il Ramayana, nel pannello settentrionale, e la battaglia di Kuruksetra per il Mahabarata, nel pannello meridionale). Passando al lato sud troviamo quindi un lunghissimo bassorilievo, realizzato inizialmente su due registri, che sfilando da sinistra a destra si riduce progressivamente ad un solo, grande, registro. Rappresenta una parata militare incentrata sulla figura del Re Suryavarman che in una incisione posta al suo fianco viene chiamato con il suo nome postumo: Paramavishnuloka (colui che è entrato nel Paradiso di Vishnu). Questo appellativo ha portato gli studiosi a ritenere che l Angkor Wat venne edificato quale mausoleo del Re e che per questo motivo il suo orientalmento è, caso unico ad Angkor, verso Ovest. Esistono anche altre supposizioni di carattere religioso relative a questo strano e originale orientamento e ancora oggi non si è giunti ad una motivazione universalmente riconosciuta. Non è altresì certo che l Angkor Wat sia realmente la tomba di Suryavarman. Proseguendo lungo le mura si incontra uno splendido pannello dedicato a Yama, signore degli Inferi, che con il suo bastone giudica i morti indicando la direzione del Parasido oppure dell Inferno. L inferno è rappresentato nel registro inferiore con notevole dovizia di dettagli e particolari sulle innumerevoli forme di tortura qui impartite. Il pannello più celebre e con le sculture più raffinate si trova però sul lato est e rappresenta la leggenda del rimescolamento dell oceano di latte . Si sviluppa su 3 differenti registri che oppongono tra loro il disordine ed il caos dell oceano primordiale, l operosità degli Dei e dei Demoni alla ricerca dell Amrita (l elisir di lunga vita), ed infine l ordine, la regolarità e la bellezza celestiale del registro superiore che rappresenta il risultato del rimescolamento che fuoriesce dall oceano: Lakhsmi (la Dea moglie di Vishnu), Airavata (l elefante a tre teste che sarà la cavalcatura del Dio Indra), il cavallo bianco a cinque teste Uchaisravas, il gioiello Kaustubha ed infine migliaia di graziose Apsaras, ninfe danzanti della mitologia induista. Una visita completa ed esaustiva dell Angkor Wat richiede almeno mezza giornata. Al pomeriggio la luce è ideale per scattare foto memorabili. La foto di apertura dell'articolo è di Alessandra Rossi.
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                                                                  Buddismo e i Sacri Monasteri di Luang Prabang

                                                                  Durante il sedicesimo nonché il seguente diciassettesimo secolo il Regno di Lan-Xang raggiunge la massima importanza e sviluppo e Luang Prabang tocca l apice della bellezza e dello sfarzo che si manifestano soprattutto nella realizzazione di stupende opere architettoniche dedicate al Buddismo Theravada. È in questa fase che vere e proprie opere d arte come i celebri conventi Wat Xieng Thong e Wat Visoun vengono alla luce. Nei secoli successivi Lan-Xang viene conquistato dal Siam e l intero territorio cade nell oblio. La posizione isolata tra alte montagne e la lontananza dalle principali vie di comunicazione e canali commerciali induce una lenta ma inesorabile ibernazione dalla quale Luang Prabang si risveglia solo in tempi recenti. È infatti tramite il colonialismo francese che la città viene scoperta e rivelata al mondo intero ed in particolare all occidente. La sua bellezza ed il fascino antico ed esotico, la profonda spiritualità e religiosità preservate in modo intatto fin dall alba dei tempi sono i fattori principali che hanno decretato nel 1995 l ingresso della città di Luang Prabang nelle liste dell Unesco quale Patrimonio dell Umanità. Una statistica stilata attraverso i giudizi e le votazioni raccolte tra i lettori di una nota pubblicazione del settore turistico ha recentemente posto Luang Prabang al settimo posto tra le città turisticamente più belle ed interessanti del mondo.
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                                                                    Baisri: Animismo e Sincretismo

                                                                    La cerimonia del Baisri, oggi ancora largamente praticata in Laos ma anche in Cambogia, Birmania, Thailandia del Nord e Thailandia del Nord Est, più di ogni altra manifestazione culturale popolare può farci comprendere quanto ancora sia viva tra le popolazioni di questi Paesi la tradizione dei primordiali culti animisti la cui origine va indietro di oltre due millenni e predata largamente l arrivo dell Induismo e del Buddismo. Allo stesso tempo, ci permette di dimostrare quanto naturalmente e spontaneamente le popolazioni del Sud-Est Asiatico siano state in grado di assimilare nuovi e più elaborati credi religiosi che non hanno soppiantato ma si sono semplicemente affiancati alle vecchie credenze. È importante notare come questo sia avvenuto anche qualora le linee guida concettuali e di pensiero delle nuove religioni fossero in antitesi. Grazie al suo profondo messaggio di pace, comprensione, compassione e fratellanza, il Buddismo Theravada, meno elaborato del Buddismo Mahayana e meno selettivo delle varie correnti Induiste, è la religione che in modo più permissivo e tollerante ha potuto accettare questo sincretistico connubio di fedi. In antitesi rispetto alle religioni panteiste o panenteiste, una religione animista assegna una forma esistenziale di ivello superiore ad ogni entità fisica di notevoli proporzioni o di vitale importanza come una montagna o un fiume. A livello più individuale, oltre al concetto di anima (vitale) già noto nelle religioni occidentali nonchè all Induismo (ma non al Buddismo), l animismo individua un entità più impersonale che si lega ma non si identifica completamente con la nostra persona. Questa sorta di anima impropria o esterna vive in noi, o meglio con noi qualora il nostro spirito sia vigorso, sano, felice ed in equilibrio psichico. Diversamente, se il nostro spirito interiore non è in grado di creare un ambiente sufficientemente gradevole ed ospitale, quest anima impropria ci abbandonerà in modo improvviso. Il corpo che perde la sua anima esterna perde a sua volta ulteriore vigore e protezione a sarà maggiormente a rischio di congiunture sforunate ed indesiderate.
                                                                      scopri di più

                                                                      Leggere per Conoscere Laos e Cambogia

                                                                      Angkor Fasto e splendore dell impero Khmer di Marilia Albanese (ed. White Star).
                                                                      Un bellissimo libro, ricco di splendide illustrazioni, che ripercorre le vicende dell impero Khmer e del suo più sconvolgente esito architettonico: i templi di Siem Reap (meglio noti, anche se non del tutto correttamente, come Angkor Wat). Il libro è suddiviso in due sezioni ben distinte: nella prima parte vengono illustrate in modo dettagliato storie, mitologie, accadimenti e credenze di questa civiltà; la seconda parte, invece, è un meticoloso itinerario nel parco archeologico, con descrizioni e fotografie dei singoli templi. Qualora stiate leggendo queste poche righe perché è vostra intenzione visitare Siem Reap (e, credetemi, dovrebbe esserlo), sappiate che se c è una cosa che veramente ti frega, quando visiti quella meraviglia, è l incapacità di ricordare i singoli templi, che dopo tre giorni passati tra quelle pietre fai fatica a raccapezzarti.

                                                                      Questo libro ha, tra gli altri, il pregio di rimettere in ordine le proprie memorie e di suscitare, a distanza di anni, sensazioni ed emozioni che forse credevate perse per sempre. Oh, se invece cercate qualcosa di più maneggevole da rigirarvi tra le mani mentre passeggiate tra quei templi incantati, potreste provare con I tesori di Angkor, sempre di Marilia Albanese (ed. White Star). Una nota doverosa per tutti coloro che si recheranno in Cambogia: a Siem Reap e a Phnom Pehn sarete avvicinati da stormi di bambini più o meno cresciuti che, in cambio di pochi dollari, vi offriranno guide e libri in formato tascabile, rigorosamente in inglese; tra questi, il sopra citato Angkor. Splendors of the Khmer Civilization (traduzione inglese del libro di M. Albanese), Ancient Angkor, di M. Freeman e C. Jacques, e Angkor. Celestial temples of the Khmer empire, di J. Ortner. Questi ultimi due trattano in modo ancor più dettagliato i singoli templi, limitando a poche pagine l esposizione narrativa delle vicende dei Khmer. Ciò detto, sappiate che si tratta sostanzialmente di fotocopie a colori fascicolate, ancorché di buonissima qualità; in Cambogia, infatti, non esiste copyright e quindi l operazione è perfettamente legale. Ora, sta a voi scegliere se dare o meno il vostro contributo al risanamento dell economia locale a scapito del legittimo interesse degli autori; un buon compromesso potrebbe essere quello di acquistare la copia tascabile del libro come guida per il periodo del vostro soggiorno, riservandosi di acquistare l originale (tra l altro, di qualità infinitamente superiore) nei negozi di Siem Reap o Phnom Pehn oppure al vostro ritorno a casa.
                                                                        scopri di più

                                                                        Petra e il Khasneh al Faroun

                                                                        Angkor Fasto e splendore dell impero Khmer di Marilia Albanese (ed. White Star).
                                                                        Un bellissimo libro, ricco di splendide illustrazioni, che ripercorre le vicende dell impero Khmer e del suo più sconvolgente esito architettonico: i templi di Siem Reap (meglio noti, anche se non del tutto correttamente, come Angkor Wat). Il libro è suddiviso in due sezioni ben distinte: nella prima parte vengono illustrate in modo dettagliato storie, mitologie, accadimenti e credenze di questa civiltà; la seconda parte, invece, è un meticoloso itinerario nel parco archeologico, con descrizioni e fotografie dei singoli templi. Qualora stiate leggendo queste poche righe perché è vostra intenzione visitare Siem Reap (e, credetemi, dovrebbe esserlo), sappiate che se c è una cosa che veramente ti frega, quando visiti quella meraviglia, è l incapacità di ricordare i singoli templi, che dopo tre giorni passati tra quelle pietre fai fatica a raccapezzarti.

                                                                        Questo libro ha, tra gli altri, il pregio di rimettere in ordine le proprie memorie e di suscitare, a distanza di anni, sensazioni ed emozioni che forse credevate perse per sempre. Oh, se invece cercate qualcosa di più maneggevole da rigirarvi tra le mani mentre passeggiate tra quei templi incantati, potreste provare con I tesori di Angkor, sempre di Marilia Albanese (ed. White Star). Una nota doverosa per tutti coloro che si recheranno in Cambogia: a Siem Reap e a Phnom Pehn sarete avvicinati da stormi di bambini più o meno cresciuti che, in cambio di pochi dollari, vi offriranno guide e libri in formato tascabile, rigorosamente in inglese; tra questi, il sopra citato Angkor. Splendors of the Khmer Civilization (traduzione inglese del libro di M. Albanese), Ancient Angkor, di M. Freeman e C. Jacques, e Angkor. Celestial temples of the Khmer empire, di J. Ortner. Questi ultimi due trattano in modo ancor più dettagliato i singoli templi, limitando a poche pagine l esposizione narrativa delle vicende dei Khmer. Ciò detto, sappiate che si tratta sostanzialmente di fotocopie a colori fascicolate, ancorché di buonissima qualità; in Cambogia, infatti, non esiste copyright e quindi l operazione è perfettamente legale. Ora, sta a voi scegliere se dare o meno il vostro contributo al risanamento dell economia locale a scapito del legittimo interesse degli autori; un buon compromesso potrebbe essere quello di acquistare la copia tascabile del libro come guida per il periodo del vostro soggiorno, riservandosi di acquistare l originale (tra l altro, di qualità infinitamente superiore) nei negozi di Siem Reap o Phnom Pehn oppure al vostro ritorno a casa.
                                                                          scopri di più

                                                                          I Castelli del Deserto

                                                                          I castelli del deserto della Giordania, splendidi esempi dell'arte e dell'architettura islamica dell'antichità, testimoniano un'epoca affascinante della ricca storia del paese. I loro raffinati mosaici, affreschi, incisioni e stucchi, ispirati alle migliori tradizioni persiane e greco-romane, illustrano innumerevoli storie di vita dell'VIII secolo. Chiamati castelli per la loro imponente mole, i complessi del deserto avevano in effetti vari scopi e fungevano da stazioni per le carovane, centri agricoli e commerciali, punti di ristoro e avamposti utili ai lontani regnanti per stringere legami con i beduini locali. Molte delle strutture tuttora in buono stato di conservazione, tutte raggruppate a est e sud di Amman, possono essere raggiunte mediante escursioni di uno o due giorni dalla città. Qusayr 'Amra, uno dei monumenti meglio conservati, è stato dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO: i muri e i soffitti interni sono ricoperti di brillanti affreschi e due stanze presentano mosaici pavimentali dagli splendidi colori. Qasr Mushatta, Qasr al-Kharrana, Qasr at-Tuba e Qasr al-Hallabat sono stati restaurati e si presentano tutti in eccellenti condizioni. Il basalto nero del forte di Azraq, utilizzato ininterrottamente sin dal tardo periodo romano, funse da quartier generale di Lawrence d'Arabia durante la Rivolta Araba.
                                                                            scopri di più

                                                                            Giordania, dove la Natura è incontaminata

                                                                            La Giordania è un paese caratterizzato da un eccezionale biodiversità. È una terra che offre di tutto: monti ricoperti di pinete, lussureggianti vallate, paludi e oasi, gli incantevoli panorami mozzafiato del Wadi Rum e il caleidoscopio mondo subacque del Mar Rosso. A tale proposito sono state create numerose riserve naturali gestite da esperti per riprodurre al minimo gli impatti negativi sui vari habitat e proteggere le rare specie di flora e fauna della Giordania. Una di queste Associazioni è proprio la RSCN (http://www.rscn.org.jo/) che si occupa della protezione di specie selvatiche e dei diversi habitat che caratterizzano la Giordania e ha ricevuto encomi a livello internazionale per gli innovativi programmi di sviluppo delle attività rurali ed ecologiche per gli abitanti del luogo. La riserva naturale di Dana copre un aerea di 308 km2 , e dal suo punto più alto, cola a picco per 1.200 m sotto il livello del mare nella Valle del Giordano. Per chi pensa che la Giordania sia solo un paese arido e desertico è bene che sappia che Dana è un paradiso senza eguali, un oasi di pace e tranquillità immersa in un mondo straordinario di tesori naturali… tra altipiani ricoperti da foreste, pendii rocciosi, dune di sabbia e deserti sassosi. Questa natura così selvaggia nasconde un intero mondo di specie vegetali e animali da scoprire! La volpe rossa, la iena, la lince del deserto, il leopardo arabo, la mangusta, le lucertole dai variopinti colori fino allo stambecco selvatico che si è perfettamente adattato al terreno roccioso.
                                                                              scopri di più

                                                                              "Tet Trung Thu" - Festa di metà Autunno

                                                                              Ogni anno, il quindicesimo giorno dell ottavo mese del calendario lunare si celebra la Festa di Metà Autunno, nota anche come la Festa della Luna in quanto segna la metà dell'autunno, la notte della festa la luna è piena e particolarmente bella, più rotonda e più brillante dell'anno. Le famiglie si riuniscono per stare assieme, ringraziare gli dei e gli antenati per l abbondanza del raccolto, la salute della famiglia, pregare che sia rinnovata anche l anno successivo o pregare di averne almeno un pò in futuro se l anno non è stato fortunato.
                                                                              È una festa cinese e vietnamnita, anche se ha tradizioni differenti. Circolano varie e differenti leggende sulle origini della festività, ma la più diffusa è simile in entrambi i paesi. Riguarda una coppia molto innamorata: lei pura e bellissima e lui provetto arcere. Un funesto giorno nel cielo spuntarono dieci soli, causando immaginabili scomodità all umanità. L eroico arcere dalla perfetta mira scoccò nove frecce che uccisero nove palle di fuoco, una venne risparmiata per motivi pratici. L eroe ricevette una boccetta di elisir dell immortalità da un dio come ringraziamento, ma si rifiutò di farne uso perchè il contenuto era sufficiente solo per una persona e non volle affrontare un eterna immortalità senza la sua sposa. Un brutto giorno, brutto come ce ne sono solo nelle leggende, mentre lui nel bosco adempiva al virile compito di procacciare del cibo, un malvagio vicino in cerca dell elisir si intrufulò in casa e aggredì la moglie. Questa, non volendo che il malvagio mortale divenisse un immortale malvagio, ingurgitò l amaro calice e fluttò in cielo leggiadra . Straziata dal suo destino , rifiutò di dimorare con gli altri immortali e, per stare vicina al suo amore, andò a vivere sulla luna. L eroe, tornato a casa e scoperta la tragedia, preparò dolci e frutta e li espose in giardino come offerta alla sua amata. Gli abitanti del villaggio, saputo della disgrazia e del sacrificio della donna, fecero la stessa offerta, e continuarono a ripetere il gesto ogni anno.
                                                                              Attualmente in Vietnam, la festa dura tre giorni, e culmina con una notte di luna piena. In questa occasione vengono preparate ed elaborate torte di luna, composizioni di frutta (fette di agrumi a forma di animali, per chiarire il livello di complessità) e si tengono riunioni familiari, ma i veri protagonisti della festa sono i bambini che per tre giorni, a qualsiasi ora ed in ogni luogo, eseguono la Danza del Drago. Per farlo, si muovono in gruppo. Uno indossa la maschera della testa di un drago, uno gli fa da coda, ed accompagnati da un esercito di coetanei armati di piatti e tamburi, danzano una serpetesca danza.Un altra leggenda della festa di mezz autunno riguarda un dragone che porta la pioggia per il raccolto, e i bambini, ondeggiando di casa in casa chiedono il permesso di esibirsi. In caso di risposta affermativa la danza porta buoni auguri ai padroni di casa e ricompense economiche ai ballerini.Ma gli adulti non vogliono sentirsi esclusi da questa usanza e mascherandosi da intrattentori per bambini, costruiscono palchi davanti a casa ed eseguono loro stessi le danze, indossando coloratissimi costumi e diventando per qualche ora l attrazione del vicinato, che ringrazierà portando cibo e bibite all evento.
                                                                                scopri di più

                                                                                Le minoranze Etniche in Vietnam

                                                                                Le regioni del nord e del centro sono il rifugio delle minoranze etniche che incontreremo nello straordinario Museo Etnico di Hanoi. Della minoranza Muong saremo anche ospiti.
                                                                                Il gruppo etnico principale In Vietnam è quello dei Viet e, stando al censimento ufficiale del 1º aprile 1999, le etnie minoritarie contano il 13,8% della popolazione. Sono 53 i gruppi etnici minoritari vivono tuttora legati alle proprie tradizioni, alcuni producono e indossano costumi elaborati, professano la propria religione e parlano i loro dialetti. Coltivano la terra soprattutto riso secco e bagnato , tè, oppio, caffè, allevano animali da cortile e mucche, e sono dediti alla caccia. La pubblica proprietà non fa parte della cultura etnica e le terre appartengono a chi si è guadagnato il diritto di costruirvi sopra un'abitazione.
                                                                                Sono popolazioni indipendenti e autonome e quasi tutti i governi hanno tentato di arruolarli nelle proprie file , prima i francesi poi gli americani per ultimo Ho Chi Minh. Durante la guerra del Vietnam molte minoranze furono arruolate e istruite dall esercito statunitense e finita la guerra alcune di queste tribù continuò ad osteggiare il governo con varie forme di protesta. Spesso sono considerate dal resto del paese come sovversivi , ma in realtà sono fra le popolazioni più svantaggiate sia economicamente sia per scolasticamente.
                                                                                Il turismo può certamente aiutare quando non diventa stimolo per facili guadagni, quando non alimenta l accattonaggio e in modo particolare la prostituzione.
                                                                                Molte agenzie locali si battono perché gli introiti siano gestiti in modo consapevole, per alimentare progetti di sviluppo, per l istruzione e la conservazione di un patrimonio irrinunciabile.
                                                                                Cerchiamo di essere rispettosi e - ad esempio - non alimentare l elemosina offerta ai bambini, semmai offriamo il nostro aiuto a progetti rivolti all istruzione attaverso scuole ed enti benefici .Ecco alcune etnie
                                                                                I Nung sono governati da un capo assistito da un consiglio degli anziani. La società è basata sul nucleo familiare, normalmente capeggiato dall'uomo. Sono noti in Vietnam per la loro esperienza centenaria nella produzione di pregevoli vestiari. Il loro abbigliamento quotidiano è costituito principalmente da un tipo di stoffa tinta nel cham ( indaco ), che simboleggia la pienezza della fede e diventò famoso quando fu indossato da Ho Chi Minh.
                                                                                I Nung praticano una sorta di Sciamanesimo in cui sono combinate assieme diverse fedi religiose.I Dao provengono dal centro della Cina, vivono nel Nord ovest del paese. 650.000 persone. Coltivano riso in ampie terrazze , piante medicinali, alberi da frutta e sono abilissimi cacciatori. Professano una fede ancestrale detta ban ho e ricorrono alla medicina naturale cinese. Le donne usano copricapi rossi che le cui fogge cambiano a seconda della condizione anagrafica: le giovani annodato come fazzoletto, le donne in guisa di più strati ripiegati sulla testa.I H mong arrivano dalla Cina , contano circa 900.000 persone. Sono prevalentemente animisti, ricordano i morti con preghiere e altarini all interno delle abitazioni dove accendono incensi e fanno donazioni. Praticano la risicoltura, coltivano erbe medicinali, marijuana, legumi e allevano animali da cortile. La famiglia e le relazioni parentali sono punto focale della vita, hanno 4 o 5 figli e non si adeguano alle norme del controllo delle nascite vietnamita. Vivono in case di bambù e legno abbastanza grandi con due cucine, una per cucinare l altra per chiacchierare con la famiglia e con parenti e amici. Sposano molto presto e conservano ancora l usanza di trovarsi il sabato e domenica presso il mercato di sapa per gli incontri amorosi tra membri della stessa etnia.I Bahnar (o anche Ba Na) contano una popolazione totale di circa 175.000 persone. Parlano una lingua del ceppo linguistico Mon-Khmer. Come molti degli altri gruppi etnici degli altopiani centrali del Vietnam, i Bahnar suonano tantissimi strumenti musicali tradizionali, compresi i gong cinesi e gli strumenti fatti col bambù. Sono animisti e conservano il calendario di 10 mesi dedicati alla coltivazione e 2 mesi dedicati alla relazioni familiari quali nozze feste nascite.I Tay costituiscono il secondo più grande gruppo etnico del Paese dopo quello dei Viet
                                                                                circa 1milione e mezzo di persone. sono stanziati a nord, nelle valli a ridosso dei numerosi monti della zona, in fertili pianure, i villaggi portano spesso il nome di un fiume o di un monte. Ogni villaggio ha 15 o 20 gruppi di case e gli abitanti praticano l'agricoltura, soprattutto coltivano il riso, il mais e le patate. Praticano il culto degli antenati e l animismo, ma nella loro religione convivono credenze buddiste taoiste e confuciane; l'altare per gli antenati di solito è collocato al centro della casa, è considerato sacro e agli invitati non è permesso sedersi di fronte ad esso.
                                                                                La letteratura e l arte tay erano celebri fin dal XVI secolo.
                                                                                Da "Libero Cammino"
                                                                                  scopri di più

                                                                                  Leggere per Conoscere il Vietnam

                                                                                  Farfalle sul Mekong di Corrado Ruggeri. Ed Feltrinelli

                                                                                  Che ci faccio qui? si chiede il giornalista Corrado Ruggeri mentre tenta di dormire, disteso dentro una capanna in un villaggio Akha.È l inizio di un viaggio intrapreso nel 1993 da Bangkok, passando per il Triangolo d Oro e cheporterà lo scrittore fino in Vietnam. Una ricerca che gli consentirà di conoscere le donne giraffa, di salire fino al Wat Doi Suthep nei dintorni di Chiang Mai, di navigare in canoa nel Krabi Klong,ma soprattutto di valicare le frontiere del Vietnam proprio nel periodo in cui il Paese si sta riaprendo al turismo.Le tracce della guerra sono presenti ovunque:nei crateri lasciati dalle bombe e che, pieni d'acqua, sembrano delle grandi piscine naturali, nellacittà sotterrranea di Cu Chi, dovei viet cong erano costretti a vivere durante la guerra o nella fatiscenza degli edifici coloniali della vecchia Saigon.


                                                                                  Non è facile per l'autore confrontarsi, anche attraverso i racconti del suo accompagnatore Duong, con la ferocia di un conflitto che non ha risparmiato nessuno.

                                                                                  Dal 1993 la situazione per i turisti è molto cambiata ed il Vietnam è ora un Paese in rapido sviluppo ma tutto ciò non impedisce di ricordare le farfalle sul Mekong , le ragazze guerrigliere uccise durante i combattimenti.


                                                                                  Alessandra Rossi

                                                                                    scopri di più

                                                                                    La scelta del fuoristrada per il vostro safari sudafricano

                                                                                    Per un viaggio in completa autonomia, con un mezzo fuoristrada puoi creare il tuo itinerario attraverso il Sudafrica, ma anche varcarne i confini per esplorare la Namibia, il Botswana, lo Zambia o lo Zimbabwe, senza porre limiti alla tua voglia di viaggiare.
                                                                                    Mezzi affidabili a un prezzo vantaggioso, completamente attrezzati per il safari-camp, con l'assistenza di un operatore locale in caso di necessità. Guarda di seguito le auto che mettiamo a disposizione. Oltre alle caratteristiche standard, i veicoli 4x4 sono dotati di una serie di accessori per consentire viaggi più sicuri verso destinazioni remote.
                                                                                      scopri di più

                                                                                      A Chitwa Chitwa, con amore

                                                                                      Tante, tantissime sensazioni, sotto quel cielo stellato. L'odore della savana. Gli incontri a muso duro con i predatori più feroci. La meraviglia di esserci. L'illusione di appartenere, in qualche modo, a questa terra. Il desiderio sfrontato di volerci vivere, e morire. La caccia del leopardo. Il silenzio, assoluto. Il valore dell'attesa. Tante, troppe sensazioni laggiù, per riuscire a dirle in poche righe. Per riuscire a spiegare cosa ha rappresentato Chitwa Chitwa per me, e cosa può offrire a chi volesse andarci. Mi ci sono voluti mesi, per distillare queste poche parole. Parole d'amore per un luogo dell'anima. Un luogo in cui mi sono sentito in assoluta armonia con la natura, in cui ho scoperto il lusso dell'essenzialità, e che oramai fa parte di me. Poi, se volete vedere come appare Chitwa Chitwa all'occhio nudo, potete andare sul sito oppure leggere le recensioni su TripAdvisor. Io, qui, ho solo cercato di svelarvene l'anima.Antonello Bacci
                                                                                        scopri di più

                                                                                        Vutlendela

                                                                                        Antonello Bacci

                                                                                        1985, sala d attesa dell aeroporto di Johannesburg. Nella luce cruda del neon, un inserviente lava il pavimento. Fuori campo, passi sfibrati vanno a innestarsi nella ritmica dello straccio. Il rimbombo che chiude la misura è quello metallico di una valigia gettata di malagrazia su una panchina, e appresso il fruscio molle e breve di un corpo stanco. L inserviente alza lo sguardo da terra fino ad incrociare un piccoletto stravaccato su una panchina, lo sguardo fisso nel vuoto. Tiene le mani affondate nelle tasche, come se gliele avessero inchiodate mentre frugava alla ricerca una monetina orfana, e un filo di barba grigia gli cola giù per il mento. Non è un momento felice, per l uomo. Ha perso un amico, cerca di dimenticare un grande amore e, a dirla tutta, non sa nemmeno bene per quale accidenti di motivo si trovi lì. O forse lo sa, ma non ha la forza di crederci. Se fosse uno scrittore, direbbe che non ha più musica nel cuore per ballare la sua vita. Invece, bizzarrie del destino, è un musicista, e tutto quello che riesce a fare è essere triste e confuso. Dall altra parte del vetro, un nero grosso come un baobab, un basco nero in testa, gli fa un cenno e accenna un sorriso trattenuto. Un poliziotto lo guarda torvo, ma lui non sembra farci caso. Meglio ignorare certe cose, se sei nero nel 1985 in Sudafrica. Il piccoletto si alza e si avvia verso l uscita, trascinando dietro di sé la valigia. Ora la sala è nuovamente deserta, gli unici segni di vita il rumore dello straccio sul pavimento e un refolo d aria che si è insinuato dalla porta a vetri, aperta. Forse il pavimento si asciugherà più in fretta. Un anno più tardi, nel 1986, esce Graceland. Il più bel tributo mai offerto alla musica sudafricana. Paul Simon lo suonerà infinite volte, dal vivo, scomponendolo e ricomponendolo in mille passi di danza, facendone vibrare ogni singola nota, mettendone a nudo i ritmi che lo sostengono e gli danno forma. Joseph Shabalala, leader dei Ladysmith Black Mambazo, che aveva lavorato a suo fianco in Sudafrica e poi collaborato alla realizzazione del disco a New York, gli regalò un nome Zulu: Vutlendela, l uomo che aprì la porta . Se si può rubare l anima a un paese facendolo cantare, beh, lui l ha fatto.
                                                                                        Antonello Bacci
                                                                                          scopri di più

                                                                                          Euforia da Euforbia

                                                                                          Antonello Bacci

                                                                                          Il Great Fish River si snoda attraverso un'area meglio conosciuta per essere stata teatro del sanguinoso conflitto tra i coloni europei e gli Xhosa. Oggi, quasi 130 anni più tardi, è un posto molto più tranquillo. Specie quali il rinoceronte nero, l'elefante, il leone, il ghepardo e il licaone africano sono state reintrodotte, e l'area ospita un'incredibile varietà botanica. Tra queste, particolarmente diffuse sono le piante grasse appartenenti al genere Euforbia. Conosciute con il nome di naboom, cactus candelabri o noor, hanno tutte una caratteristica in comune: un lattice bianco e appiccicoso, chiaramente visibile quando si spezza un peduncolo. Si tratta di un lattice generalmente tossico (la linfa di alcune specie può causare dolorose eruzioni cutanee e in alcuni casi cecità). Il lattice dell'Euphorbia subsala, diffusa in Namibia, e quello dell'euforbia comune, diffusa in Zimbabwe e nelle aree settentrionali del Sud Africa, viene utilizzato per avvelenare le punte delle frecce. Sulle colline ondulate e sulle pianure che circondano la valle del Great Fish River, e solo in quest'area, fioriscono delle euforbie di dimensioni più ridotte. Una delle varietà più comuni è rappresentata dall'Euphorbia bothae, nota anche come noor. Si tratta di una pianta poco studiata, ma che svolge un ruolo particolare nelle vite di molti abitanti della valle. Le api che si cibano del nettare dell'E. bothae producono un miele dal retrogusto piccante, quasi immangiabile, anche se particolarmente apprezzato da alcuni gourmet. Una singola goccia di lattice della pianta causa un'intensa sensazione di bruciore sulla lingua umana, ma numerosi mammiferi ne consumano invece grandi quantità. Il rinoceronte nero, ad esempio, sembra apprezzare particolarmente l'euforbia, che costituisce tra un terzo e metà della propria dieta giornaliera. Anche altri animali si nutrono di euforbia, da piccoli roditori quali il topo muschiato a grandi mammiferi quali eland, kudu maggiore, impala e babbuino nero. E alcune delle osservazioni sul campo indicano che l'effetto dell'euforbia sui mammiferi non è esattamente lo stesso che sull'uomo. In particolare, in un'occasione è stato osservato un babbuino nero maschio disteso tra le euforbie (di cui si era abbondantemente nutrito, come testimoniato dal gran numero di peduncoli spezzati da cui colavano le residue gocce di lattice), con gli occhi sbarrati, completamente incapace di muoversi - addirittura, per accertarsi che fosse vivo, un ranger ha potuto avvicinarsi a lui e toccarlo. Circa un'ora dopo, l'animale si è rialzato faticosamente in piedi e, barcollando, si è allontanato. [...]I kudu sono stati per lunghi anni oggetto di caccia nel territorio dell'Eastern Cape e hanno sviluppato una sana diffidenza nei confronti dell'uomo. Sono quindi rimasto molto sorpreso quando ho visto due femmine adulte brucare tranquillamente lungo il ciglio della strada, senza fare caso alla mia macchina. Si tratta di un comportamento assolutamente non comune per i kudu in quest'area. Dopo aver finito di mangiare, si sono allontanate senza fretta. Allora, incuriosito, sono sceso dalla macchina e ho potuto notare che il loro pasto era costituito da euforbie, il cui lattice continuava a colare copioso dai peduncoli spezzati di recente. Questo ed altri avvistamenti sembrano avvalorare l'ipotesi che l'euforbia abbia effetti allucinogeni, anche se non vi è letteratura scientifica a conforto di questa tesi. La speranza è che successive osservazioni possano contribuire a chiarire questo mistero.
                                                                                          David Hood, naturalista e guida in Lowveld e Eastern Cape © African Geographic, 2005
                                                                                          Traduzione: A. Bacci
                                                                                            scopri di più

                                                                                            Swaziland

                                                                                            Sebbene non possano competere con i principali parchi africani in termini di abbondanza faunistica, i parchi e le riserve dello Swaziland meritano sicuramente una deviazione, sopratutto se siete appassionati di birdwatching: in un'area più piccola del Kruger National Park sono infatti state registrate ben 500 specie di uccelli... Alcune delle riserve più interessanti dello Swaziland sono concentrate nell'area Nord-Ovest e possono essere facilmente visitate lungo il tragitto verso il Kruger National Park:
                                                                                            MLILWANE NATIONAL RESERVE L'area protetta più antica dello Swaziland, offre ottime possibilità di viste guidate a piedi o a cavallo.
                                                                                            MBABANE - MANZINI Rispettivamente la capitale e la città più industrializzata dello Swaziland. Mbabane non offre grandi attrattive, è preferibile fermarsi a Manzini e fare acquisti di cesti e altri manufatti interessanti al mercato centrale.
                                                                                            MALOLOTJA NATIONAL RESERVE Una delle principali riserve dello Swaziland, offre fantastici paesaggi e numerose possibilità di hiking
                                                                                            PHOPHONYANE NATIONAL RESERVE Un'area protetta di dimensioni ridotte nei pressi di Piggs Peak, impreziosita da belle cascate e da un'avifauna quantomai ricca. Per concludere, un paio di suggerimenti utili: a chi desidera approfondire la conoscenza di questo paese consigliamo di procurarsi la Bob Forrester's Traveller's Guide to Swaziland, un'agile guida di 48 pagine in vendita in tutto lo Swaziland; Swazi Trails (www.swazitrails.com) è un operatore locale dinamico e affidabile che organizza escursioni a piedi e a cavallo + white-water rafting nei parchi di quest'area.
                                                                                              scopri di più

                                                                                              Leggere per conoscere il Sudafrica

                                                                                              Antonello Bacci

                                                                                              Vado verso il Capo di Sergio Ramazzotti (ed. Feltrinelli).
                                                                                              L incipit: 13.000 km, da Algeri a Città del Capo, in autobus traghetto treno e quant altro, per vedere l effetto che fa viaggiare per l Africa nera con la faccia bianca. Poi, come succede quando nella vita ci metti la faccia, le cose cambiano in modo impercettibile ma inesorabile: allora quella che sembrava un avventura diventa un percorso, abbandoni ogni altezzosità per passare dall altra parte dello specchio, smetti di confrontare e inizi a valutare le cose semplicemente per quello che sono, abbracci l attesa, inizi a vivere al ritmo bradipo che ha il tempo laggiù. Un libro di grande onestà intellettuale che vale la pena di leggere per capire come viaggiare sia soprattutto un processo di maturazione, di apertura all altro da sé: insomma, per parafrasare una bellissima frase di Vinicius de Moraes, il viaggio è l arte dell incontro. Antonello Bacci

                                                                                              Aspettando i barbari di J.M. Coetzee (ed. Einaudi).
                                                                                              Un anziano magistrato stanziato in uno sperduto avamposto di frontiera. A scandire le sue giornate, poche piccole cose: l'amministrazione della giustizia durante il giorno, la lettura dei classici la sera, gli scavi archeologici nel tempo libero. A giustificarne l'esistenza, una missione: difendere ad ogni costo la cittadella dall'avanzata dei Barbari. Non che ve ne siano mai state tracce, a dire il vero, ma il magistrato è lì per obbedire agli ordini e non per metterli in discussione. Un giorno, però, l'Impero decide che è giunta l'ora di sterminare i Barbari e affida l'amministrazione dell'avamposto al Colonnello Joll, che avvia una brutale e sanguinosa repressione dei Barbari, o almeno di quelli che egli ritiene essere tali. Il magistrato, che ha galleggiato tutta la sua vita nell'indifferenza, ora è costretto a scegliere: asservirsi al potere oppure opporvisi apertamente. Si ribellerà: ma per il suo gesto dovrà subire l'umiliazione del carcere e la tortura. Straordinario apologo sul Potere e sulla brutale ottusità dei suoi burocrati, Aspettando i barbari è un libro magnifico nella sua compostezza. Le pagine in cui il magistrato, accusato dal Colonnello di essere una spia, traduce all'impronta le tavolette di geroglifici costituiscono uno dei momenti più alti dell'opera di Coetzee e una delle più limpide, strazianti rappresentazioni della Dignità umana, ancorché sotto forma di scrittura. Antonello Bacci

                                                                                              Verranno dal mare di Zakes Mda (ed. E/O).
                                                                                              Nella prima metà dell'Ottocento, quando il Sudafrica era una colonia inglese, una profetessa nera annunciò che gli antenati del popolo xhosa sarebbero tornati dal mare per punire gli inglesi. Affinché la profezia si avverasse, sarebbe stato necessario il sacrificio di terre e di bestiame di tutto il popolo. La popolazione si divise tra Credenti, coloro i quali accettarono la condizione per poi morire di fame, e Miscredenti che accettarono il dominio inglese. Quasi duecento anni dopo Camagu, un nero urbanizzato e colto arriva in un villaggio a sud del paese e ritrova l'antica faida tra Credenti e Miscredenti: questa volta l oggetto del contendere è la costruzione di un casinò in un piccolo villaggio lungo la costa, ricco di bellezze naturali. Il protagonista si lascerà coinvolgere nello scontro e cambierà la propria stessa visione del mondo. Antonello Bacci

                                                                                              La polvere dei sogni di André Brink (ed. Feltrinelli).
                                                                                              Outeniqua 1994: una città immaginaria nel Sudafrica di pochi mesi prima delle elezioni che porteranno Nelson Mandela al potere. Kristien, dopo molti anni di esilio a Londra, torna nella città dove ha trascorso la sua infanzia per vegliare la nonna, Ouma Kristina, in punto di morte ma ancora mentalmente vivacissima e ossessionata dall'idea di non riuscire a trasmettere alla nipote la storia della famiglia e del Sudafrica. E Ouma Kristina le racconta tantissime storie affascinanti, al confine tra realtà e mito, che finiscono per far emergere una sottile analogia tra le donne della famiglia, in lotta per l'indipendenza, e il popolo sudafricano. Un romanzo che aiuta a capire le sofferenze e la schizofrenia di un paese con la faccia bianca e l'anima nera. Antonello Bacci
                                                                                                scopri di più

                                                                                                Un gioiello tra terra e mare

                                                                                                Pochi sanno che l'area su cui è stato istituito il Greater St. Lucia Wetland Park vanta una bio-diversità superiore al Kruger National Park o al Delta dell'Okavango in Botswana. Il parco racchiude un complesso ecosistema composto da cinque ecosistemi locali: un sistema marino caratterizzato dalle calde acque dell'Oceano Indiano, che ospita la barriera corallina più a sud dell'Africa, canyon sottomarini e lunghe spiagge sabbiose; un sistema di dune costiere intervallato da foreste sub-tropicali e ambienti paludosi; un sistema di laghi che include i due laghi di St. Lucia e di Kosi, che condividono lo stesso estuario, più i quattro grandi laghi interni di Sibaya, Ngobezeleni, Nord-Bhangazi e Sud-Bhangazi; il sistema paludoso di Mkhuze e Umfolozi, con paludi, canneti e macchie di papiro; e un sistema interno formato da savane e pianure formate dall'abbassamento del livello dell'acqua. Come è ovvio, in un'area così grande e con una tale varietà di habitat vivono moltissime specie di animali, tra cui il rinoceronte nero e un'ampia gamma di antilopi, e l'estuario del St. Lucia è uno dei posti migliori al mondo per osservare ippopotami e coccodrilli. Nelle acque dei laghi e dell'Oceano Indiano abbonda la fauna marina – balene, delfini, tartarughe e pesci tropicali lungo la barriera corallina. Inoltre, l'abbondanza di avifauna rende il Greater St. Lucia Wetland Park una delle destinazioni più ricercate per i birdwatcher di tutto il mondo.
                                                                                                  scopri di più

                                                                                                  All You Need Is Ecuador

                                                                                                  1) L'Ecuador, prende nome dalla linea equatoriale che passa pochi chilometri a nord di Quito, dividendo in due l'emisfero settentrionale da quello meridionale
                                                                                                  2) Il paese viene diviso da nord a sud da una sezione vulcanica, le Ande, con più di 80 vulcani
                                                                                                  3) E' il paese con la maggiore concentrazione di fiumi per chilometro quadrato nel mondo
                                                                                                  4) A partire dal 1998 al 2002 l'Ecuador subì una forte crisi economica che fece svalutare la moneta nazionale, il Sucre, facendo cosi subentrare il dollaro statunitense
                                                                                                  5) Nel periodo di forte crisi economica del 1999, si stima che più di 3 milioni di Ecuadoriani emigrarono, la maggior parte verso USA, Spagna e Italia
                                                                                                  6) Nel 1922 il territorio Ecuadoriano divenne indipendente dalla corona di Spagna ed entrò a far parte della Federazione Gran Colombia (formata allora da Colombia, Venezuela, Panamà e Ecuador) fino al 1930 quando divenne una Repubblica
                                                                                                  7) La corrente di Humboldt bagna l'intera costa occidentale del Sud America, rendendo cosi le acque dell'Ecuador estremamente fredde.  Questo causa un abbassamento della temperatura dell'area riducendo le precipitazioni e facendo si che le aree costiere siano aride e desertiche
                                                                                                  8) L'arcipelago delle Galàpagos appartiene all Ecuador e possiede una grande varietà di specie endemiche. Delle 5000 presenti, solo 2000 si possono trovare anche in altri luoghi della terra.  Queste isole sono state rese famose dal naturalista inglese Charles Darwin, che sviluppò la teoria dell'evoluzione delle specie per selezione naturale.  Il nome Galapagos deriva dal verbo galoppare e si dice sia un'allusione all'abitudine spagnola di cavalcare le tartarughe giganti poco prima di ucciderle e consumare la loro carne
                                                                                                  9) Il parco Yasuni, che significa terra santa , si estende tra le province di Pastaza, Napo e Orellana su un'area di 9.820 km tra il fiume Napo e il fiume Curaray.  Questo parco fa parte dei patrimoni dell'Unesco e si trova nel territorio dove vive il popolo Waoran e i gruppi Tagaeri e Taromenane, civiltà ancora isolate.
                                                                                                  10) Il vulcano più alto del paese è il Chimborazo con i suoi 6313 metri, dovuto alla sua posizione equatoriale, si può dire che è il punto della terra più vicino al sole
                                                                                                    scopri di più

                                                                                                    Parque Nacional El Cajas

                                                                                                    Il Parque Nacional El Cajas, uno dei più spettacolari dell'intero Sudamerica, è caratterizzato dalla presenza del páramo, un habitat umido tipico della regione andina che si trova a un'altitudine compresa tra 3200 e 4200 metri. Il páramo, oltre ad offrire un'enorme ricchezza naturale - 5000 tipi differenti di piante, di cui il 60% endemiche - è una fondamentale risorsa per l'approvvigionamento idrico del paese grazie alla presenza di oltre 200 laghi e lagune di origine glaciale, collegati tra loro da fiumi e ruscelli di portata variabile. Due dei fiumi che attraversano Cuenca, il Tomebamba e lo Yanuncay, nascono proprio a El Cajas. El Cajas offre scorci di ruvida bellezza, panorami mozzafiato, un'incredibile biodiversità ed è un paradiso per gli amanti del trekking; lungo i sentieri del parco si respira un senso di solitudine primordiale, reso ancora più intenso dalla presenza di muschi, licheni e felci che crescono abbarbicati alle rocce e da aree isolate di foresta primaria che punteggiano il parco. La vegetazione comprende inoltre alberi di quinua e il polylepis o albero della carta. La fauna è elusiva, ma è comunque possibile avvistare lama selvatici, reintrodotti nel parco alla fine del secolo scorso, conigli e cervi. L'avifauna è oltremodo interessante, potendo vantare colibrì, tucani di montagna e anatidi vari. Da Cuenca, anziché prendere un volo, il consiglio è di andare via terra da Cuenca a Guayaquil via El Cajas (tre ore di auto circa) con una sosta al lago Llaviucu (noto anche come Zorrocucho), per sgranchirsi le gambe e godersi la vista del lago La Toreadora: un panorama indimenticabile. Chiedete il trasferimento Metropolitan Touring MT-354 da Cuenca a Guayaquil, con una guida parlante inglese, lunch box e ingresso al parco El Cajas compresi nel prezzo. A solo 30 km a ovest di Cuenca, il parco nazionale El Cajas è un'area da salvaguardare per il suo potenziale idrico, per le sue foreste di alta quota che fungono da spugna assorbendo l'acqua successivamente destinata a Cuenca, flora e fauna uniche che la rendono una destinazione turistica di grande interesse.
                                                                                                      scopri di più

                                                                                                      Storia della resurrezione del pappagallo

                                                                                                      Il pappagallo cadde nella pentola fumante.
                                                                                                      Si sporse, gli venne un capogiro e cadde.
                                                                                                      Cadde perchè era curioso e annegò nella zuppa bollente.
                                                                                                      La bambina, che era sua amica, pianse.
                                                                                                      L'arancia si tolse la buccia e gliela offrì per consolarla.
                                                                                                      Il fuoco che ardeva sotto la pentola si pentì e si spense.
                                                                                                      Dal muro uscì una pietra.
                                                                                                      L'albero, inclinato sul muro, trasalì per il dolore, e tutte le sue foglie caddero al suolo.
                                                                                                      Come tutti i giorni arrivò il vento per pettinare le fronde dell'albero e lo trovò spoglio.
                                                                                                      Quando il vento seppe quello che era successo, perse una raffica.
                                                                                                      La raffica aprì la finestra, andò per il mondo senza meta e si diresse verso il cielo.
                                                                                                      Quando il cielo seppe la brutta notizia divenne pallido.
                                                                                                      E vedendo il cielo bianco, l'uomo rimase senza parole.
                                                                                                      Il vasaio del Cearà volle sapere.
                                                                                                      Alla fine l'uomo recuperò la parola e raccontò che il pappagallo era annegato
                                                                                                      e che la bambina aveva pianto
                                                                                                      e che l'arancia si era tolta la buccia
                                                                                                      e che il fuoco si era spento
                                                                                                      e che il muro aveva perso una pietra
                                                                                                      e che l'albero aveva perso le foglie
                                                                                                      e che il vento aveva perso una raffica
                                                                                                      e che la finestra si era aperta
                                                                                                      e che il cielo era rimasto senza colore
                                                                                                      e l'uomo senza parole.
                                                                                                      Allora il vasaio riunì tutta la tristezza
                                                                                                      e con questo materiale le sue mani riuscirono a resuscitare il morto.
                                                                                                      Il pappagallo che ebbe origine dal dolore
                                                                                                      ebbe piume rosse come il fuoco
                                                                                                      e piume azzurre come il cielo
                                                                                                      e piume verdi come le foglie dell'albero
                                                                                                      e un becco duro come la pietra
                                                                                                      e dorato come l'arancia
                                                                                                      e parole umane da dire
                                                                                                      e acqua di lacrime per bere e rinfrescarsi
                                                                                                      e una finestra aperta per fuggire
                                                                                                      e volò nella raffica del vento.
                                                                                                      Da Eduardo Galeano, Las Palabras Andantes, ed. Mondadori
                                                                                                        scopri di più

                                                                                                        Non solo (Charles) Darwin

                                                                                                        Se le Galàpagos sono indissolubilmente legate al nome di Charles Darwin e alla sua Teoria dell'evoluzione, alla fama di queste isole contribuì in modo determinante anche William Beebe. Appassionato naturalista, ornitologo, viaggiatore instancabile ed esploratore, Beebe è principalmente conosciuto per aver progettato e sperimentato, assieme ad Otis Barton, la batisfera: un ingegnoso veicolo sottomarino in grado di scendere a profondità abissali sopportando l'enorme pressione dell'acqua. Nel 1934, scese ad una profondità di quasi mille metri ed ebbe modo di osservare, primo essere umano, la vita della fauna abissale. Meno noto è il fatto che, negli anni '20, egli intraprese un lungo viaggio alle Galàpagos che sarebbe stato all'origine del suo libro Galapagos: World's End, edito nel 1924. Il resoconto di quel viaggio avventuroso, le osservazioni sulla flora e sulla fauna delle isole (e la storia di come rischiò la vita per aver respirato i gas di un vulcano in piena eruzione) rappresentano tuttora uno dei libri più letti da tutti coloro che sognano e/o amano le Galàpagos.
                                                                                                          scopri di più

                                                                                                          Pisco Sour

                                                                                                          Il primo sabato del mese di febbraio il popolo Peruviano celebra El Dìa del Pisco Sour , ma pochi conoscono l origine di uno dei migliori cocktail del mondo; Aroma e fragranza sono due dei tanti aggettivi che caratterizzano questa bevanda. E un aperitivo che non può assolutamente mancare in un incontro tra amici o in una riunione sociale Peruviana. Il termine Pisco proviene dal termine quechua Pisscu che significa piccolo volatile ; oltre ad essere anche il nome di un porto peruviano situato nella regione Ica, reso famoso dalla grande quantità di uccelli che sorvolano l area. Quando i peruviani parlano del Pisco Sur riconoscono in questa parola: tradizione, arte e storia perché questa bevanda racchiude in sé 400 anni di tradizione. Cos è il Pisco Sour? E un cocktail nazionale del Perù, cui ingredienti sono: il succo del limone sutil peruviano che si coltiva esclusivamente in Perù, l albume dell uovo e lo sciroppo di gomma. Una curiosità e data dall albume dell uovo, usato tra i suoi ingredienti, che lo rende unico al mondo.
                                                                                                            scopri di più

                                                                                                            Chicharron de cerdo

                                                                                                            La storia del "chicharron" ebbe inizio con gli schiavi portati alle colonie spagnole in Perù, poiché loro per tradizione allevavano i maiali. I suini portati dagli spagnoli vennero soprannominati "cuchi" dagli indigeni ed all'inizio "los chicharrones" si friggevano solo ed esclusivamente per estrarre il grasso utile ad ungere gli alimenti per evitare il deterioramento degli stessi, di conseguenza el chicharròn era un prodotto secondario utilizzato per l'alimentazione di altri animali a causa dell'abbondante quantità di carne che a quell'epoca avevano a disposizione. Con il progresso della società l'uomo cominciò a pensare in maniera diversa e volle trarne profitto anche dalla carne cominciando cosi negli anni 1927 e 1928 a venderla ad un prezzo decisamente basso; inizio cosi a prendere piede una delle ricette più importanti del menù Peruviano che viene preparato con varie ricette a seconda della regione. In Perù si chiamano chiccharròn i fritti di tutti gli animali che con questo tipo di cottura diventano croccanti. (pesce, pollo, pesce e carne di maiale principalmente) Il più popolare è costituito da pezzi di maiale cotto con la pelle sul suo contenuto di grassi e conditi solo con acqua salata. E 'servito con patate fritte o patate bollite e arrosto salsa di mais con Criolla, vale a dire cipolla tritata con limone e menta. La cotenna di maiale viene utilizzato per preparare panini, noto come "il pan con cicciarròn" Francisco Pizarro, che ha allevato i maiali nella sua infanzia, era un grande estimatore di questo piatto durante la prima colonizzazione spagnola.
                                                                                                              scopri di più

                                                                                                              Le linee di Nasca

                                                                                                              Qui di seguito è riportato un articolo pubblicato nel 2001 in cui l'archeologo bresciano Giuseppe Orefici illustrava le sue interessantissime tesi sul sito di Nasca, uno dei tanti enigmi archeologici di cui l'uomo non è ancora venuto pienamente a capo. A partire dal 500 avanti cristo, il popolo Nasca occupò per mille anni un territorio, in gran parte desertico, che va dal mare alle montagne, da Cañete, a nord, fino ad Arequipa, a sud. Migliaia di chilometri quadrati. Macerie ricoperte da macerie. Giuseppe Orefici, bresciano, esperto dei segni del passato, non sa ancora che quelle sono le rovine di Cahuachi. Non immagina, anche se scava già da anni in Perù, di trovarsi di fronte a una città sacra distrutta da un terremoto. Orefici conosce da tempo gli incredibili e giganteschi disegni, tracciati sulla terra e visibili soltanto dall'alto, volando sopra il cielo di Nasca. Ma vuole sapere di più sul mondo di chi li ha inventati, sulla civiltà e la cultura di un popolo che costruiva immagini sacre così grandi. Anche perché sono forme che evocano mistero e scatenano le più singolari ipotesi. Quella estrema parla addirittura di piste di atterraggio per extraterrestri. Ma Orefici, che studia incisioni e pitture rupestri da una vita, ha i piedi per terra. Intuisce che le rovine della città sacra hanno una stretta connessione con i geoglifi. Chiede al governo peruviano di poter scavare il sito. E sono proprio i suoi scavi a riscrivere tutta la storia della civiltà Nasca e a svelare il mistero dei geoglifi: non sarebbero un calendario astronomico, come si era ipotizzato, bensì lunghi percorsi sacri seguiti durante le feste religiose. "Cominciai il lavoro 18 anni fa con il proposito di mettere in luce la vita di questa civiltà scomparsa e di arrivare a costruire un museo vivo" racconta Orefici. E così, anno dopo anno, Cahuachi si svela. "Il terremoto accadde nel 350 avanti Cristo. Cahuachi era la capitale religiosa del popolo Nasca" prosegue Orefici. "Il disastroso sisma che la rase al suolo fu un evento che segnò la storia di questo popolo. Le forze della natura avevano sconfitto gli dei, che non erano stati in grado di opporsi alla devastazione. Per questo Cahuachi fu cancellata dai suoi stessi abitanti". Accadde allora qualcosa di unico: l'antica capitale religiosa dei Nasca fu sepolta come fosse un'entità. Sigillata: ricoperta con le sue macerie, con i mattoni crudi di scarto, con milioni di tonnellate di materiale con cui era stata costruita, forse più di 100 anni prima. "i Nasca erano vissuti per mille anni su un territorio che andava dal mare alle montagne. I limiti sono Canete, 100 km a nord, e Arequipa a sud. Era un mondo senza scrittura: si comunicava attraverso i segni dipinti su ceramica, o tessuti su stoffa" racconta Orefici. Ed ecco le prime scoperte: sulle ceramiche e sulle stoffe, tutte parti di cerimoniali religiosi, si ritrovano, in piccolo, esattamente gli stessi disegni dei geoglifi giganti. Le linee disegnate a terra, i solchi impressi sul terreno sono quindi tragitti sacri, che il popolo percorreva nel corso di cerimonie rituali e che si riferivano soprattutto ai miti della fertilità e dell'abbondanza. "Solo nella fase più arcaica le linee dei geoglifi vengono scavate sulle pareti discendenti delle colline in modo da poter essere viste da lontano" spiega lo studioso: "i geoglifi più imponenti e famosi, quelli del condor e del colibrì, della scimmia a nove dita, del ragno e dell'orca, sono della seconda fase. Cioè quella prima del terremoto che distrugge Cahuachi. Siamo nel pieno dello splendore Nasca, mille anni prima dell'arrivo degli Incas". Ma che dei sono quelli adorati dai Nasca? La massima divinità è una triade a forma di felino, serpente e uccello. Una sorta di quetzalcoatl, sul tipo di quello adorato dai Maya del centro america. Poi ci sono le orche sacre, venerate dai Nasca della costa, uomini che si dedicavano alla pesca con piccole imbarcazioni. E ancora eroi mitici, uomini dei, guerrieri forse intermediari con le divinità affinché favorissero le nascite e i raccolti. E non lesinassero cibo. La fertilità e l'acqua erano al centro degli interessi dei Nasca che abitavano in zone semiaride, lungo corsi d'acqua stagionali, e che avevano bisogno di acquedotti e di riserve potabili per sopravvivere. Quindi i segni impressi sul terreno tendono soprattutto a proteggere dalla fame e dalla miseria. Per Orefici i geoglifi non hanno molto a che fare con le stelle e le costellazioni, come invece ha sempre sostenuto la "Dama di Nasca", la tedesca Maria Reiche: per 50 anni questa ricercatrice, a bordo di una scassata Volkswagen, viaggiò ovunque intorno a San Pablo, il villaggio dove abitò fino alla morte, avvenuta nel 1998 all'età di 95 anni. Reiche non aveva fatto altro, per tutta la vita, che cercare possibili connessioni tra quelle forme a spirale (simbolo magico nella cultura Nasca), zoomorfe e antropomorfe, la matematica e l'astronomia: secondo la studiosa, i geoglifi rappresentavano una sorta di calendario cosmico inciso sul terreno. Ma l'archeologo italiano esclude questa suggestiva ipotesi: "Se quei segni fossero serviti a riconoscere le stelle, li avrebbero dovuti vedere di notte, illuminati da una sterminata serie di torce. Certo sarebbero state scene di forte suggestione. Peccato però che non sia mai stato trovato neppure un microscopico frammento di legno bruciato lungo i tracciati dei geoglifi. Nulla che possa far pensare all'uso del fuoco". Dopo il terremoto avviene un cambiamento, drastico, radicale. Sconvolti dalla catastrofe, i capi religiosi entrano in crisi. Vengono imposti segni completamente diversi: si dà ordine di costruire spazi chiusi, trapezoidali, rettangolari. "Sono recinti dove ci si riunisce. La sacralità del luogo viene a mancare. È un mondo più laico quello che segue la chiusura della città religiosa di cahuachi" spiega Orefici. I sigilli alla città morta vengono apposti anche con la sepoltura di materiali, di oggetti di culto, di animali. Gli scavi di Cahuachi svelano cose inedite. Come nel caso di una vera e propria tumulazione di grandi flauti di pan in ceramica che emettono suoni mai ascoltati prima. Sono le antaras, strumenti unici che dal 1988 vengono studiati dall'etnomusicologa polacca Anna Grucszinska. "a parte la bellezza del suono, molto diverso come tonalità dai classici flauti di pan in canna, le antaras racchiudono misteri che hanno a che fare con la matematica" sostiene Orefici. Secondo i calcoli di Grucszinska, si può ipotizzare addirittura che i Nasca conoscessero una tavola molto simile a quella pitagorica. Questo perché il sistema di suonare questi strumenti presupponeva meccanismi complessi ed estremamente sofisticati. Ma la scoperta più clamorosa è la tomba dei tessuti. Per sigillare il luogo di Cahuachi, i Nasca non solo sacrificano agli dei 64 lama in un recinto; non solo depongono ceramiche votive e fili di capelli intrecciati; vengono sepolti anche tessuti e stoffe in grande quantità, con splendidi motivi decorativi diffusi in gran parte del Sud America. Continua Orefici: "Si tratta di arredi cerimoniali scoperti nel 1998. Erano custoditi e arrotolati in forma di spirale. Abbiamo cominciato a srotolarli con grande cautela. Purtroppo sono in pessime condizioni, ma abbiamo buone probabilità di salvarli dalla distruzione. Ci vuole tempo, ma la lettura attenta di tutti questi simboli porterà forse a nuove scoperte. L'idea sarebbe quella di presentare molti di questi tessuti a milano, in una grande mostra dedicata alla civiltà Nasca, prevista per il 2001". Il racconto di Orefici si avvia alla conclusione. Che cosa successe ai Nasca verso la fine della loro civiltà? Quali altri luoghi abitarono? Ci sono ancora 200 anni di storia dopo l'abbandono di Cahuachi e, fino a poco tempo fa, le ricerche svolte avevano localizzato in estaquerìa la località più importante abitata dai Nasca dopo il terremoto del 350 avanti Cristo. "Sembrava che Estaquerìa fosse il sito della decadenza, l'agglomerato urbano che segna la fase finale dei Nasca fino all'arrivo dei Wari. Un popolo che in pochi decenni scese dalla sierra e si impossessò della fascia meridionale dell'attuale Perù. Certamente Estaquerìa è l'ultimo centro cerimoniale conosciuto. Ma i primi studi effettuati sul posto ci dicono che è anche un luogo antichissimo. Ci sono templi di grande dimensione e aree piramidali a scaloni con piattaforme sovrapposte. È come se questa civiltà fosse andata a morire là dove era nata. Cominceremo a scavare a Estaquerìa il prossimo anno, sistematicamente" annuncia Orefici. Che ha un ultimo segreto da svelare. Lo anticipa solo a metà: esiste un terzo centro urbano, appena localizzato, forse il più grande di tutti quelli finora conosciuti. Non ha ancora un nome, è tenuto segreto. Almeno fino al 2002, quando la scoperta sarà annunciata a un convegno internazionale sulle civiltà precolombiane. "si tratta di una zona fuori dal mondo, estremamente difficile da raggiungere. Ci darà lavoro almeno fino al 2006". La storia di Nasca finisce nel museo, costruito con grande fatica da Orefici e inaugurato nel luglio del 1999. Ha la particolarità di conservare solo manufatti trovati in sito. Tra questi reperti ci sono le 580 mummie che lo scavo ha restituito. Le sta studiando l'antropologo fisico Andrea Drusini dell'Università di Padova. La mummia più antica è preistorica, ha 6.280 anni. E ancora tutti i capelli in testa perché l'aridità del suolo, la sabbia, la mancanza di umidità e l'acidità del terreno hanno provocato la mummificazione naturale del corpo. Il museo raccoglie poi le tombe ritrovate, con le varie tipologie. Quelle a pozzo con copertura di pali di legno allineati; altre con copertura di argilla in modo da chiudere perfettamente la camera. E in ultimo le più grandi: a due piani e con un pozzo all'interno di un piano di calpestio. Era qui che veniva deposto il morto. Ed era nell'area della necropoli che venivano eseguiti sacrifici, non solo di animali ma anche umani.
                                                                                                                scopri di più

                                                                                                                Leggere per Conoscere il Perù

                                                                                                                Rulli di tamburo per Rancas di Manuel Scorza (ed. Feltrinelli)
                                                                                                                Nelle Ande Centrali, tra il 1950 e il 1962, si consumò una delle tante tragedie civili che la prepotente dinamica del capitalismo 'selvaggio'ha seminato tra le fragili comunità andine, sorrette da un'economica primitiva. Quella fu particolarmente odiosa e spietata, perfino in rapporto a quanto accade assai di frequente nel Centro e nel Sudamerica dove alla violenza, per così dire, biologica del latifondo e del monopolio si aggiunge quella del pregiudizio coloniale e razzistico, non arginata da garanzie che lo Stato per lo più subalterno e corrotto non è del resto in grado di assicurare. Riassumiamola in breve. A Rancas e nei villaggi circonvicini sperduti nella solitudine della cordillera i contadini vivono vita grama nei terreni comuni che sono loro assegnati, pascolando magre pecore e praticando le poche culture possibili a quelle altitudini. I confini di quelle terre comunitarie sono ben delimitati, non per questo la bramosia dei grandi proprietari terrieri adiacenti si astiene dal violarli o dal considerarli inesistenti. Pretesti per sanzioni arbitrarie non mancano, tanto più se ad amministrare la giustizia è lo stesso onnipotente latifondista in causa. D'altra parte un attacco ben più massiccio ai diritti dei comuneros viene da una compagnia mineraria americana, la Cerro de Pasco Corporation, che oltre a sfruttare i giacimenti della regione decide di impiantare una grande azienda agricola e recinge a questo fine un milione di ettari. L'avanzata mostruosa di quel recinto sulle terre le acque le strade della comunità, legittimata dallo stesso giudice esemplare, risveglia nei miti, intimiditi meticci spiriti di inutile protesta, di solitarie vendette, finché per istigazione di Héctor Chacòn non si produce una rivolta. La guardia civile peruviana vi mette fine sterminando i comuneros. Per quanto collettive, simili tragedie non hanno quasi mai testimoni degni di tale nome. Nel caso di Rancas il testimone ci fu, un testimone tutt'altro che disposto a rimanere tale senza far sua la lotta dei comuneros. Prima di essere l'autore di Rulli di tamburo per Rancas, Manuel Scorza fu infatti paladino così pugnace della loro causa da correre qualche pericolo e subire persecuzioni. I suoi avversari, e cioè il giudice Montenegro e il direttore della Cerro de Pasco Corporation, non gli hanno infatti perdonato questo libro e lo accusano minacciosamente di faziosità e di estremismo. Ma attenzione a pensare che Rulli di tamburo per Rancas non sia altro che un documento o un libello o comunque l'azione letteraria di un militante di sinistra: il linguaggio immaginifico, la capacità di invenzione e l'amara poesia che sprigiona dalla testimonianza nuda di Scorza rendono questo libro unico e appassionante.  Antonello Bacci

                                                                                                                Alejandro e i pescatori di Tancay di Braulio Munoz (ed. Gorèe)
                                                                                                                È don Morales a rivolgersi al protagonista, soltanto evocato, a partire dalla sua fuga per entrare nella lotta politica clandestina: così inizia il lento e amoroso recupero di una realtà perduta, attraverso il rapporto armonioso che si deve stabilire con il mare e la sua fauna. Uno dei principi fondamentali che regola questa simbiosi è il senso del limite, disposizione legata a una sapienza collettiva, maturata nel corso dei secoli, che avverte che le risorse non sono infinite. Una sapienza ambientale che va trasmessa a chi si avvicina per la prima volta al mondo della. Nelle pagine del romanzo emerge tutta la profondità del substrato indigeno, che affonda le sue radici nelle grandi culture del Nord del Perù. Su questo mondo, dopo la conquista incaica e la valanga dell invasione spagnola, si abbattono negli ultimi decenni i processi di modernizzazione selvaggia. Le fabbriche sorte senza nessun controllo, all insegna del profitto sfrenato e del delirio di onnipotenza, sconvolgono un equilibrio ecologico millenario. Con l acqua del mare, contaminano anche i rapporti fra gli uomini. Estrema manifestazione di un potere abusivo, che getta le premesse per una reazione disperata.  Antonello Bacci

                                                                                                                Muyu Pacha di Josè Luis Ayala (ed. Gorèe)
                                                                                                                Sul cuore di una pietra dormono gli anni la pioggia battente forma le strade un nido accoglie tutti gli uccelli un solo confine è una terra comune l'eco è l'anima della montagna il sale significa solitudine una sorgente è la vita stessa un bambino un'altra umanità da una fessura nasce il giorno in una poesia parla un uomo come il mare nella conchiglia La rinascita di una letteratura scritta nelle lingue indigene è sintomo di un rilevante cambiamento culturale nel panorama letterario dell America latina. All interno di questo fenomeno, il percorso di José Luis Ayala è emblematico. Considerato la voce più importante della poesia aymara del XX secolo, Ayala ha pubblicato le prime raccolte più di trent anni fa. La sua ricerca, profondamente legata almondo andino, si inserisce nel vasto ambito della sperimentazione, teso al recupero delle radici del mondo autoctono peruviano. Il libro raccoglie alcuni estratti della produzione poetica di Ayala dal 1972 al 1999. Il libro ha un introduzione del curatore Riccardo Badini.  Antonello Bacci

                                                                                                                Runa Simi (ed. Stampa Alternativa)
                                                                                                                Sotto la direzione e l ispirazione del poeta e scrittore Manuel Scorza furono pubblicate, alla fine degli anni ‘50, diverse raccolte di racconti e leggende espressione della cultura tradizionale dei popoli andini del Perù. Il volume presenta una scelta di racconti, alcuni dei quali appartengono al passato precolombiano, altri sono versioni di antichi miti e leggende popolari, ma tutti testimoniano dell armonia di una cultura capace di unire il cielo alla terra. Tra i racconti presentati: L amante del Condor (di José Maria Arguedas), L origine della pioggia , L amore di Quilaco e Curicoillur (di Miguel Cabello Valboa), L aquila funesta , Gli uccelli donna (di Fray Bernabé Cobo).

                                                                                                                La Vampata di Manuel Scorza (ed. Feltrinelli)
                                                                                                                Con questo volume Scorza conclude il ciclo andino iniziato con Rulli di tamburo per Rancas riannodando tutti i fili che hanno alimentato l affresco della lotta dei contadini peruviani per riconquistare le loro terre ai grandi proprietari terrieri. I protagonisti della leggendaria vicenda e l ambiente carico di tradizioni del Perú sono gli stessi delle opere precedenti, ma a questi si aggiunge la figura dell avvocato Ledesma, un personaggio storico, che dà il suo contributo alla rivoluzione contadina difendendo i diritti della popolazione più povera. Nel movimento corale di un intero popolo che si riscatta e si riappropria, con la terra, della sua eredità storica, Scorza fa rivivere la lotta dimenticata dei comuneros peruviani.  Antonello Bacci

                                                                                                                Magia delle Ande di Gabriele Poli (ed. Edt)
                                                                                                                Progettato in origine come un normale tour turistico in solitaria, il viaggio narrato in questo libro diventa, dopo poche pagine, un esperienza unica, con mete, visite e incontri del tutto anomali ed eccentrici rispetto a qualunque risaputo itinerario peruviano. Grazie all incontro fortuito con una giovane antropologa, l autore ha infatti accesso a luoghi, cerimonie, rituali normalmente preclusi, o addirittura proibiti, al viaggiatore straniero. Alle consuete ed esteriori impressioni da turista, si affiancano così esperienze vissute in prima persona che entrano nel cuore di una civiltà millenaria e nella tradizione più segreta del popolo quechua e della religione andina.  Antonello Bacci

                                                                                                                La città perduta degli Inca di Hiram Bingham (ed. Newton Compton)
                                                                                                                Luglio 1911. Uno spettacolo straordinario si presenta agli occhi della spedizione peruviana di Yale, guidata da Hiram Bingham: le rovine dell antica città inca di Machu Picchu. Dopo aver letto le cronache del xvi e del xvii secolo che parlavano di città inca sconosciute ai conquistadores spagnoli, dopo aver studiato le leggende locali, le vicende storiche e le caratteristiche fisiche della zona, Bingham riuscì faticosamente a giungere a Machu Picchu e a procedere così all opera di disboscamento, restauro e ricostruzione che ha reso l assetto del luogo come oggi possiamo vederlo. Le interpretazioni che Bingham formulò dopo il suo viaggio – alcune confermate, altre smentite dagli studi successivi – sono state riportate in questo libro, con una chiarezza e una capacità espositiva e narrativa tali da rendere il resoconto di una scoperta avvincente come un romanzo d avventura. Antonello Bacci
                                                                                                                  scopri di più

                                                                                                                  Kafue National Park - Zambia

                                                                                                                  THE KAFUE NATIONAL PARK
                                                                                                                  Situato nella parte occidentale dello Zambia, il Kafue National Park è il più antico e il più grande parco nazionale di tutto lo Zambia, copre un area di 22.400km² ed è il secondo parco nazionale più grande in Africa e ospita più di 55 diverse specie animali. Nonostante la sua grandezza e la sua locazione ( circa 2 ore da Livingstone), resta ancora un luogo poco conosciuto e largamente inesplorato con vaste aree ancora incontaminate. Grazie alla sua dimensione e alla varietà di tipi di habitat presenti nelKafue questi possiede una enorme varietà di fauna selvatica.Negli ultimi anni il Parco ha visto una crescita ben gestita nel numero di campi di safari e Alberghi che operano dentro e intorno al Parco. Questo nuovo interesse ha portato con sé più visitatori e investimenti per il settore, in particolare nel settore delle infrastrutture, con un certo numero di strade e piste d'atterraggio. Questa crescita ha fatto sì che il Parco passasse sotto la protezione dello Zambia Wildlife Authority (ZAWA) sempresostenuta dagli operatori del Parco.
                                                                                                                   

                                                                                                                    scopri di più

                                                                                                                    Abbiamo sete: il governo del Botswana continua a negare l’acqua ai Boscimani

                                                                                                                    Ieri, nella giornata ONU per i Diritti Umani, Babbo Natale ha consegnato all Alto Commissariato del Botswana a Londra un regalo speciale da parte dei Boscimani del Kalahari. I funzionari del Botswana hanno ricevuto una bottiglia d acqua avvolta in una splendida carta da regalo e un etichetta recante la scritta Abbiamo sete . A distanza di tre anni dalla vittoria dello storico caso giudiziario con cui l Alta Corte del Botswana ha sancito il diritto dei Boscimani del Kalahari a vivere nelle loro terra, infatti, il governo continua a negare loro l accesso all acqua.

                                                                                                                    Nel 2002, i Boscimani avevano trascinato il governo del Botswana in tribunale accusandolo di averli sfrattati dalla Central Kalahari Game Reserve (CKGR) contro la loro volontà. Il processo, che diventò presto il più lungo e il più costoso della storia del paese, si chiuse il 13 dicembre 2006 con una sentenza storica, che riconobbe che i Boscimani erano stati cacciati illegalmente e che potevano quindi tornare a casa. A tre anni di distanza dal verdetto, i Boscimani sono stati costretti a intraprender una nuova causa giudiziaria per vedersi riconoscere il diritto di attingere acqua nella riserva, loro terra ancestrale. Il governo sta promuovendo il turismo nella loro terra, e ha autorizzato una società di safari a costruirvi un complesso turistico con piscina. Ma contemporaneamente, ai Boscimani viene ancora negato il diritto di accedere al loro unico pozzo, cementato dalle autorità all epoca degli sfratti, e sono costretti a compiere un viaggio di 400 km per andare a procurarsi l acqua al di fuori della riserva. Consegnando il regalo all Alto Commissariato del Botswana, Babbo Natale ha commentato: Auguro al governo del Botswana un Natale veramente felice, e spero vivamente che voglia festeggiare insieme ai Boscimani permettendo loro di esercitare il più basilare dei diritti umani: quello di accedere all acqua nella propria terra . Nel mese di marzo, anche il relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti dei popoli indigeni aveva visitato le comunità boscimani del Kalahari confermando la loro mancanza di accesso all acqua.

                                                                                                                      scopri di più

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                                                                                                                      Istruzioni e consigli di viaggio: 4x4 Self Drive Safari Sud Africa e Botswana
                                                                                                                      a cura di Salvatore Villani


                                                                                                                      1. Guida su strada asfaltata
                                                                                                                      Le vie di comunicazione tra le principali città del Botswana sono asfaltate, anche se la qualità dell asfalto non sempre è ottima.  Rispettare rigorosamente i limiti di velocità indicati – le forze di Polizia pattugliano le strade con autovelox mobili e tele-laser si rischiano dai 300 a 1.000 pula (circa 30/100 euro) di multa da pagare in contanti e contestualmente alla notifica dell infrazione, in funzione della velocità misurata oltre il limite.  Rispettare l'obbligo di allacciare le cinture di sicurezza, lungo le strade e in prossimità dei centri abitati, come consuetudine nei paesi africani, ci sono posti di controllo della polizia dove è obbligatorio "arrestare" l'automobile, anche se sembra non ci sia nessuno nei paraggi!  E' buona norma, anche se i limiti di velocità imposti lo consentono, mantenere una velocità ridotta sia per la presenza che per gli attraversamenti di animali al pascolo e selvatici.


                                                                                                                      2. Guida Off-road
                                                                                                                      Regole generali:  1. Ridurre la pressione degli pneumatici a 1.4/1.6 bar;  2. Verificare livelli olio motore, freni e liquido raffreddamento periodicamente.
                                                                                                                      Cambio Modalità Normale: 1-5 marce, 2 ruote motrici.  La trasmissione viene distribuita soltanto su le due ruote motrici posteriori.  Modalità di selezione da utilizzare su strada asfaltata o sentiero con fondo compatto.
                                                                                                                      Off-road High Gear: 1-5 marce, 4 ruote motrici simbolo H4.  La trasmissione diviene integrale e ripartita sulle 4 ruote (che diventano motrici) e questa modalità consente di affrontare strade sterrate con sabbia, fango o altre superfici con scarsa aderenza.  La selezione consente comunque di procedere con una certa fluidità di marcia, anche se i consumi di carburante naturalmente aumentano rispetto alla marcia su strada asfaltata.  Tale modalità viene definita anche "High Gear 4", di solito troverete sulla leva del cambio selettore il simbolo H4.
                                                                                                                      Off-Road Low Gear: 1-5 marce, 4 ruote motrici ridotte L4. Trasmissione integrale che consente praticamente di raddoppiare le marce esistenti, assicurando lo stesso numero di rapporti che, una volta demoltiplicati, permettono di avanzare anche a velocità ridottissime con il motore che gira attorno a valori assai prossimi alla coppia massima.  In altre parole, il riduttore è una sorta di cambio aggiuntivo che serve a ridurre i normali rapporti del cambio principale in tutte quelle occasioni, tipiche dell'off-road, nel corso delle quali è richiesta la massima potenza abbinata a velocità di avanzamento ridottissime, offrendo quindi un'ampia gamma di marce specifiche per la guida in fuoristrada.

                                                                                                                      2.1. Guida su sabbia pesante (heavy sand)
                                                                                                                      a) Pressione pneumatici 1.4/1.6 bar
                                                                                                                      b) Selezionare H4 (trazione integrale)
                                                                                                                      c) Procedere ad una velocità max di 35/40 Km/h
                                                                                                                      d) Procedere cercando di mantenere un andatura costante (non accelerare, decelerare bruscamente)
                                                                                                                      e) quando il sentiero/strada presenta solchi/tracce molto profonde (> 40 cm) cercare di procedere sul bordo esterno della strada e da evitare i solchi centrali
                                                                                                                      f) Quando si guida all jnterno di solchi non contrastare lo sterzo , ma semplicemente controllarlo con piccoli movimenti
                                                                                                                      g) Evitare di guidare su strade sabbiose nella fascia oraria dalle 10:00 alle 16:00 , la sabbia calda assume una sofficità elevata con aumento del rischio di insabbiamento ("Sand Stuck"); la sabbia nelle prime ore del mattino e all imbrunire è generalmente più compatta;
                                                                                                                      h) In caso di fermata di emergenza NON FRENARE ma lasciare che l auto si fermi naturalmente
                                                                                                                      i) Ripartenze da fermo : partire selezionando la 1^ marcia e rilasciando gradualmente la frizione (senza strappi) senza accelerazioni brusche. Nei casi più difficili (SABBIA ALTA) selezionare le "ridotte" L4 , la 1^ marcia e rilasciare anche in questo caso gradualmente la frizione e appena in movimento cambiare in 2^ marcia. ATTENZIONE: per passare a L4 l'auto deve essere ferma.
                                                                                                                      l) evitare di procedere a ridosso del veicolo che ci precede per evitare l effetto nebbia prodotta dalla sabbia sollevata
                                                                                                                      m) Cambio direzione/traccia: qualora si volesse uscire da un solco , in caso di difficoltà, si consiglia di non fermarsi, non rallentare, mantenere l andatura costante e ruotare lo sterzo decisamente al fine di tagliare le tracce profonde e avvicinarsi ai bordi della strada. La manovra deve essere effettuata senza fermare il veicolo, per evitare che le ruote sterzanti restino incagliate nella sabbia. Questa manovra è necessaria quando si incontrano altri veicoli provenienti in direzione opposta e si rende necessario lasciarlo passare per ragioni di precedenza o altro.2.2)

                                                                                                                      2.2 Guida su sabbia pesante + bush road
                                                                                                                      a) Valgono tutte le regole per la guida su sabbia pesante
                                                                                                                      b) Valutare l ingombro e la consistenza dei cespugli in mezzo alla carreggiata

                                                                                                                      2.3 Guida su sabbia pesante + dossi
                                                                                                                      a) Valgono tutte le regole per la guida su sabbia pesante

                                                                                                                      2.4 Guadi di fiumi, canali e corsi di acqua in genere
                                                                                                                      Il guado di fiumi, corsi d acqua e canali richiede una particolare attenzione anche in funzione del fatto se il veicolo è equipaggiato o meno con il c.d. "snorkel" che consente guadi più impegnativi. In assenza di questo dispositivo si consiglia di:
                                                                                                                      a) Valutare con un ispezione a piedi la profondità e lo stato del fondo , ovvero osservare le tracce di entrata e di uscita eventualmente presenti;
                                                                                                                      b) Profondità massima consentita (altezza mozzo ruote)
                                                                                                                      c) Normalmente si consiglia di selezionare la trazione integrale H4 (nei casi più difficili o quando non siete sicuri selezionate L4)
                                                                                                                      d) Procedere con estrema cautela e lentezza (specialmente con L4 selezionato): potrebbero essere presenti buche e ostacoli sul fondo;
                                                                                                                      e) Visualizzare le aree più chiare del fondo (rappresentano le zone meno profonde)
                                                                                                                      f) Visualizzare e pianificare la manovra di guado (non sempre è possibile mantenere una traettoria lineare)
                                                                                                                      g) Verificare l inclinazione della zona di uscita dal guado e se l area è libera da altri ostacoli o veicoli.

                                                                                                                      2.5 Guida nel fango (mud)
                                                                                                                      Per quanto riguarda la profondità del fango, il parametro fondamentale è rappresentato dall altezza minima da terra del veicolo, valore in base al quale viene definito poco profondo uno strato di fango la cui altezza risulti ad essa inferiore, mentre in caso contrario si parla di fango profondo. In presenza di fango poco profondo, sotto il quale si trova generalmente uno strato di terreno duro e consistente, non vi sono particolari problemi e, una volta inserita la trazione integrale (ed eventualmente anche le ridotte), si procede a velocità moderata. Un andatura troppo sostenuta, oltre a rivelarsi inadeguata ai fini dell aderenza e della sicurezza in presenza di eventuali ostacoli (sassi, buche profonde, rami, etc.) nascosti nel fango, può sollevare anche una vera e propria ondata di melma frammista a detriti di ogni genere; questi, una volta depositati sul radiatore potrebbero causare (in seguito all evaporazione dell acqua dovuta al calore) la formazione di uno strato di fango tra le griglie del radiatore stesso provocandone il surriscaldamento.  Allo stesso rischio è esposta anche la ventola situata davanti al radiatore per cui, oltre a contenere la velocità, è consigliabile tenere sempre sotto controllo il manometro dell acqua per evitare danni alle guarnizioni della testata.  Quando invece il fango è abbastanza profondo, senza arrivare necessariamente a sfiorare il fondo del veicolo, è consigliabile adottare una guida abbastanza slanciata, prendendo se necessaria una breve rincorsa e mantenere una velocità la più uniforme possibile.  Per migliorare le condizioni di aderenza si può ricorrere alla cosiddetta "remata", rappresentata da un continuo zigzagare dello sterzo verso destra e verso sinistra, mentre un ulteriore manovra di emergenza per tirarsi fuori da eventuali difficoltà può essere quella di accelerare e decelerare con brevi ma intensi colpi sull acceleratore.  Questa tecnica, provocando una rapida rotazione delle ruote, contribuisce (grazie alla notevole forza centrifuga inferta sulla superficie dei pneumatici) a liberare i tasselli delle gomme agevolando la loro aderenza nel fango.  Indipendentemente dalla profondità del fango è preferibile scegliere una marcia non troppo bassa (II o III ridotta) che, pur assicurando al motore di mantenere una certa coppia, eviti di far girare troppo velocemente le ruote che, a causa della diminuzione dell aderenza, inizierebbero inesorabilmente a scavare bloccando completamente il veicolo.  Per quanto riguarda la traiettoria ottimale da seguire nell'attraversamento di un tratto fangoso, la rotta migliore (compatibilmente con le condizioni del percorso) è rappresentata da una traiettoria che risulti la più rettilinea possibile; al contrario un percorso curvilineo, seppur con lieve angolazione, può rallentare l'andatura diminuendo anche l'aderenza delle ruote nel terreno.  La guida nel fango rappresenta una difficoltà notevole per un fuoristrada 4x4, sebbene ben equipaggiato.
                                                                                                                       
                                                                                                                         
                                                                                                                       
                                                                                                                       
                                                                                                                       

                                                                                                                      Itinerario di viaggio e livello di difficoltà

                                                                                                                       

                                                                                                                      Tappa

                                                                                                                      Cond, Strada

                                                                                                                      Liv. Diff.

                                                                                                                      Note

                                                                                                                      Johannesburg / Waterberg

                                                                                                                      Asfalto

                                                                                                                      Sterrato sabbioso

                                                                                                                      FACILE

                                                                                                                       

                                                                                                                      Waterberg / Khama Rhino Sanctuary

                                                                                                                      Asfalto fino al Parco



                                                                                                                      Sabbia  

                                                                                                                      FACILE



                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      All’interno del parco ci sono i sentieri di collegamento dalla Reception alle aree di campeggio con condizioni di sabbia molto pesante.

                                                                                                                      All’interno del parco invece il fondo stradale e sabbioso ma compatto , ma bisogna prestare attenzione perché in alcuni tratti i banchi di sabbia sono impegnativi.

                                                                                                                      Khama Rhino Sanctuary / Central Kalahari Game Reserve

                                                                                                                      Asfalto fino alla svolta per la strada d’ingresso alla riserva


                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      FACILE

                                                                                                                       

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      Attenzione lasciata la strada asfaltata si devono percorrere circa 70 Km di strada sabbiosa per arrivare al Gate del Parco. La tracica presenta sabbia compatta e molle. In alcuni casi si potrebbe trovare anche del fango.

                                                                                                                      Central Kalahari Game Reserve

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      Superficie sassosa

                                                                                                                      Dossi (Bumps)

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      Alcuni tratti delle piste interne sono con superficie sabbiosa ma compatta, ma la maggior parte delle vie di comunicazione in terne presentano varie combinazioni di sabbia pesante, dossi, rovi e avvallamenti del terreno che rendono estremamente faticosa la guida.

                                                                                                                      Central Kalahari Game Reserve / NXAI Pan

                                                                                                                      Sabbia




                                                                                                                      Asfalto

                                                                                                                       


                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      DIFFICILE




                                                                                                                      FACILE



                                                                                                                      ESTREMAMENTE DIFFICILE

                                                                                                                      Uscire dal Kalahari presenta le stesse difficoltà dell’entrata




                                                                                                                      La strada fino all’ingresso dello Nxai Pan è asfaltata.



                                                                                                                      Dal Gate d’ingresso alla zona campeggio la strada è estremamente difficile per la presenza di fondo stradale sabbioso pesante con profondi solchi (30/40 cm) che richiede una perizia di guida notevole per evitare l’insabbiamento.

                                                                                                                      Baobab Bassins

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      Sale

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      FACILE

                                                                                                                      La deviazione verso BB prevede una strada sabbiosa con dossi difficile per la quale bisogna prestare attenzione.

                                                                                                                      Il bacino di sale presenta invece una superficie compatta di sale, ma attenzione a n on perdere l’orientamento per la mancanza di punti di riferimento geografici o naturali.

                                                                                                                      Maun / Thrid Bridge (Moremi)

                                                                                                                      Asfalto

                                                                                                                      Strada sterrata compatta

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      FACILE

                                                                                                                      MEDIA

                                                                                                                      MEDIA

                                                                                                                      Lungo tratto di strada misto sabbia e sterrato condifficoltà medie, attenzione alle deviazioni e alle indicazioni assenti.

                                                                                                                      Third Bridge

                                                                                                                      Guado – Fiume

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      Guado di ponte semi-sommerso che presenta difficoltà per il livello dell’acqua, il fondo e l’angolo di attacco del ponte in uscita/entrata dall’acqua (ATTENZIONE)

                                                                                                                      Moremi

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      Guida che presenta difficoltà per i banchi di sabbia profonda, guadi di ponti di legno e/o sommersi

                                                                                                                      3d Bridge / Kwahi

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      Bush

                                                                                                                      MOLTO DIFFICILE

                                                                                                                      Strada sabbiosa pesante , poche indicazioni , rovi  attenzione.

                                                                                                                      Kwahi – SAVUTE

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      Guado Fiume

                                                                                                                      MOLTO DIFFICILE

                                                                                                                      Tratto molto lungo (> 100 km) su trada sabbiosa pesante , poche indicazioni , rovi  attenzione. GUADO DEL FIUME KWAHI IMPEGNATIVO NON LINEARE. PRESTARE ATTENZIONE E RIVOLGERSI A GUIDA LOCALE.

                                                                                                                      Zona SAVUTE

                                                                                                                      Sabbia

                                                                                                                      Guadi

                                                                                                                      Fango

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      Zona alluvionale , con numerosi guadi, fiumi, canali e sabbia molto profonda anche nei camp.  Attenzione alle zone fangose e ai guadi di canali e/o fiumi

                                                                                                                      LENYANTI

                                                                                                                      Sabbia pesante

                                                                                                                      ESTREMAMENTE DIFFICILE

                                                                                                                      Strade di collegamento con sabbia pesante rischio insabbiamento ATTENZIONE

                                                                                                                      SAVUTE / IAHAH

                                                                                                                      Sabbia pesante

                                                                                                                      Strada sabbiosa con dossi profondi

                                                                                                                      ESTREMAMENTE DIFFICILE

                                                                                                                      Poche indicazioni stradali.

                                                                                                                      Strada sabbiosa con dossi profondi scavati dai mezzi pesanti rendono la guida molto faticosa e sollecitano pesantemente la struttura della jeep.

                                                                                                                      IHAHA CHOBE RIVER FRONT

                                                                                                                      Sabbia pesante

                                                                                                                      Strada sterrata

                                                                                                                      DIFFICILE

                                                                                                                      Presenza di tratti di sabbia profonda e strada sterrata pietrosa. Si consiglia di guidare lungo l’argine del fiume e in senso orario (contrario) al circuito consigliato.



                                                                                                                      ALTRI CONSIGLI DI CARATTERE GENERALE
                                                                                                                       
                                                                                                                      1) Prima di entrare nei parchi , in particolare Kalahari, Moremi provvedere ad effettuare il rifornimento di carburante (Full), di acqua (Tank in dotazione al fuoristrada);
                                                                                                                      2) Prevedere un consumo medio di acqua potabile pari 2.5/3.5 lt /giorno /persona, quindi provvedere ad effettuare opportuno rifornimento;
                                                                                                                      3) Provvedere ad effettuare rifornimento di provviste privilegiando prodotti in scatola o in barattolo, pasta, riso. In alcuni parchi non è consentito far entrare frutta e verdura fresca per ragioni sanitarie.
                                                                                                                      4) Consigliamo di portare con voi un equipaggiamento accessorio rispetto a quello fornito in dotazione al fuoristrada, nello specifico:
                                                                                                                      - Coltello
                                                                                                                      - Coltellino svizzero multiuso (Swiss Army Knife)
                                                                                                                      - Bussola - Almeno n.2 Torce ad alta intensità luminosa (comprese batterie di scorta)
                                                                                                                      - Torce da testa di colore giallo/rosso/bianco (giallo/rosso per evitare di attirare insetti notturni)
                                                                                                                      - n.2 paia di guanti da lavoro (per lavori di manutenzione del mezzo, cambio gomme, piccoli lavori)
                                                                                                                      - 10/15 mt di corda in nylon o para-cord (corda paracadute) per utilizzi vari
                                                                                                                      - Set di accendini o acciarino per accendere falò
                                                                                                                      - Scarponcini leggeri e Infradito o ciabatte per doccia
                                                                                                                      - Ganci e moschettoni di varie dimensioni
                                                                                                                      - Abbigliamento leggero e traspirante (evitare colori scuri)
                                                                                                                      - Sciarpa tipo shemag per proteggersi dal sole e dal vento
                                                                                                                      - Cappello floscio a tesa larga
                                                                                                                      - Acquistare riduttori per apparecchiature elettroniche in Botswana
                                                                                                                      - Batterie di scorta per apparecchiature elettroniche (macchine fotografiche, videocamere, …)
                                                                                                                      - Caricatori per presa 12V in auto
                                                                                                                      - Telefono satellitare
                                                                                                                      - GPS cartografico
                                                                                                                      - Depuratore per acqua potabile (in caso di emergenza)
                                                                                                                      - Occhiali da sole non polarizzati
                                                                                                                      - Pacchetto di primo soccorso e medicinali all occorrenza (antibiotici/antistaminici, …)
                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                        Leggere per Conoscere il Botswana

                                                                                                                        Le lacrime della giraffa di Alexander McCall Smith (ed. Guanda).
                                                                                                                        Le avventure di Mma Ramotswe, prosperosa titolare dell'unica agenzia investigativa del Botswana con a capo una donna. Un buffo incrocio tra Miss Marple e Padre Brown, in grado di risolvere misteri angosciosi e piccole contrarietà facendo ricorso al buon senso, alla testardaggine e all'aiuto del signor J.L.B. Matekoni, rispettabile proprietario di una fiorente officina meccanica e di lei promesso sposo. Se mai vi siete chiesti come vive la gente in Botswana, com'è la quotidianità nell'Africa non tribale, di cosa sono fatte le giornate a Gaborone, beh, questo è il libro che fa per voi.  Antonello Bacci

                                                                                                                        Chobe- Africa's Untamed Wilderness di Daryl e Sharna Balfour (ed. Southern Book Publishers).
                                                                                                                        Uno dei libri fotografici più belli ed emozionanti in circolazione, disponibile in ogni libreria del paese. Daryl e Sharna Balfour, una coppia di affermati fotografi sudafricani, ha trascorso un anno nel Chobe National Park per regalarsi questo meraviglioso diario per voce e immagini. Il regalo più bello che potete farvi tornando dal Botswana, da sfogliare con gli occhi umidi di commozione e il cuore vuoto di una nostalgia feroce. Antonello Bacci
                                                                                                                          scopri di più

                                                                                                                          Cos'è un Safari Camp?

                                                                                                                          Il safari camp è il modo più autentico, viscerale, entusiasmante di viaggiare le Terre degli Tswana. Tipo: prendete una jeep appositamente attrezzata per i safari (visione panoramica su tre lati), con tanto di frigo bar a disposizione, mettete al volante una guida con vent'anni di esperienza, agganciateci un rimorchio che da qualche parte le tende e i generi di conforto bisognerà pur metterli, e via si parte. Si fa tappa in aree riservate all'interno di parchi e riserve, lungo il fiume o in una radura, localizzabili esclusivamente mediante GPS.
                                                                                                                          Ah, se non vedete nessuno nei paraggi, è perchè l'area è tutta per voi. Dicevamo: una volta giunti a destinazione, il rimorchio viene sganciato e i due collaboratori (eh si, o volevate fare tutto da soli?) iniziano a montare il campo. Voi, nel frattempo, rimontate sulla jeep e cominciate a fare la conoscenza di elefanti, giraffe e leoni. Quando tornate, al tramonto, il campo è pronto. Sulla destra, la zona notte: la vostra tenda, spaziosa e accogliente (3x3, brandina e comodino), appena più in là il lavandino pieghevole che mattina e sera viene riempito di acqua calda, e poco discosto un piccolo wc da campo, dall'aria estremamente discreta. Sulla sinistra, una geniale doccia da campo, pronta ad un semplice cenno di mano. Di fronte a voi, una splendida tavola apparecchiata, calici di vetro e vino sudafricano. La cucina è espressa e ogni sera viene servito un menu diverso con carne o pesce, verdure, frutta e dolce. Però no, aspettate, ancora non è pronto. Venite invece a sedervi qui, accanto al fuoco, con gin tonic e patatine, chiudete gli occhi e abbandonatevi alla felicità più spudorata ancora per qualche minuto, ripensando alla giornata appena trascorsa. E se non sapevate cos'è il mal d'Africa, beh, adesso lo sapete.
                                                                                                                          Antonello Bacci
                                                                                                                            scopri di più

                                                                                                                            Le Ceste del Botswana

                                                                                                                            Le ceste del Botswana tessute a mano, sono considerate le più raffinate al mondo. Grazie all'alta qualità della loro lavorazione ed ai materiali usati, questi prodotti artigianali si sono guadagnati un riconoscimento internazionale. Il materiale usato per la lavorazione si ricava dalle fibre della palma mokolwane, la quale viene tinta usando le radici, la corteccia e le bacche della pianta stessa. Le foglie delle palme vengono bollite insieme alle radici e le altre parti, finche la tonalità del colore desiderato non è stata raggiunta.
                                                                                                                            Il materiale grezzo viene raccolto nella regione del Delta dell'Okavango. La domanda crescente di ceste e manufatti in fibra ha reso necessaria la coltivazione delle palme mokolwane su larga scala, per proteggerne la riproduzione. I motivi decorativi rappresentati sulle ceste raccontano una storia, ed alcuni di questi sono diventati molto ricorrenti come il "Running Ostrich" o il "Knees of the Tortoise", mentre altri disegni sono rimasti quelli originali creati dalle donne che hanno inventato questa lavorazione.
                                                                                                                            Le ceste tradizionali sono usate anche per trasportare l'acqua o la birra, conservare il cibo o utilizzati per la caccia di pesci. Con l'introduzione di secchi, contenitori o buste, le ceste tessute a mano stavano in passato lentamente sparendo. Il turismo ha fatto sì che questi prodotti artigianali riprendessero a comparire sui mercati e anzi ad acquistare poi maggior pregio nella lavorazione e nei dettagli. Tutto ciò ha fatto si che la loro produzione sia notevolmente cresciuta ed incoraggiata.
                                                                                                                            Oggi si svolge una competizione che si tiene ogni anno nella città di Maun, dove le donne provenienti da tutto il Botswana, gareggiano esibendo i modelli migliori. Viaggiando nel Paese si trovano negozi di ceste un pò ovunque in Botswana e spesso accade di vedere ai lati delle strade le donne che producono e vendono le ceste appena lavorate.
                                                                                                                              scopri di più

                                                                                                                              Parchi Nazionali e Riserve Private

                                                                                                                              Per salvaguardare la biodiversità del proprio territorio e ridurre al minimo l'impatto antropico, il Governo del Botswana ha adottato una politica ambientale estremamente restrittiva: il contingentamento delle strutture ricettive e l'onerosità delle tariffe di accesso ai parchi fanno del Botswana uno dei paesi con il minor afflusso turistico in rapporto alle risorse naturali che offre. I parchi e le riserve nazionali del Botswana sono indubbiamente fra i più selvaggi, incontaminati e isolati del continente africano. Circa il 17% del territorio del Botswanaè occupato da parchi o riserve naturali, mentre un altro 20% viene fatto rientrare sotto la definizione di "zona a fauna controllata". La particolarità di queste aree, gestite da privati o dalle comunità locali, è quella di permettere i cosiddetti "night drive", ovvero escursioni che si protraggono oltre il tramonto, durante le qualiè possibile osservare animali altrimenti raramente avvicinabili. Delta dell'Okavango
                                                                                                                              Immaginate una valanga d'acqua che dall'Angola straborda in Namibia e poi cola in Botswana, dove prende fiato e docilmente si incanala in fiumi ruscelli rivoli fino a dissolversi in un labirinto di lagune e di canali. Quest'abbondanza d'acqua attira una grande quantità e varietà di fauna e gli incantevoli paesaggi del Moremi Game Reserve sono considerati da molti i più suggestivi di tutte le riserve dell'Africa meridionale. Chobe National Park
                                                                                                                              Il Chobe, uno dei parchi nazionali più emozionanti del continente africano, racchiude una straordinaria varietà di ecosistemi: savane, paludi, boscaglia, foreste: la mutevolezza del paesaggio va di pari passo con la ricchezza della fauna. E poi c'è il Chobe Riverfront: il posto più bello del mondo per osservare gli elefanti, forse. Kalahari Desert
                                                                                                                              Aspro, arido, inospitale: questo e altro ancora, il Kalahari, roccia e sabbia e orizzonti che chiedono la carità di una nuvola. D'estate. Perché d'inverno la pioggia fiorisce il deserto, lo colora e lo popola di animali. Allora, esiste solo lo stupore ancestrale della vita che nasce e la gioia di assistere ad un simile miracolo.
                                                                                                                                scopri di più

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                                                                                                                                Nell isolato attiguo al Royal Grand Palace si trova il Wat Pho, il tempio più antico, più vasto e probabilmente più importante di Bangkok. Al suo interno si susseguono una infinità di costruzioni religiose dagli stili ed ispirazioni più disparati. Il Bot è circondato da ben due file di mura perimetrali, i portici di ognuna delle quali sono arricchiti da una lunga esposizione di statue del Buddha Sakyamuni di vari stili e provenienze. Dietro a questo complesso sono invece dislocati quattro stupa di notevoli dimensioni, dotati di pianta a croce tipica dell antichissimo stile di Sukhothai e ricoperte da raffinate ceramiche a mosaico. Il Wat Pho è però famoso tra i visitatori internazionali soprattutto per l enorme Buddha dorato scolpito nella posizione sdraiata sul fianco destro e della lunghezza di quasi 50mt che raffigura il Buddha nel momento della morte e della dipartita dal mondo terreno per raggiungere il Parinirvana, episodio storico avvenuto nella città indiana di Kushinagara all età di 80 anni. Nell antichità il Wat Pho non era solo un tempio ma una vera e propria università buddista. Qui ad esempio era contenuta la più grande raccolta di libri del Regno, creata dal Re Rama III e purtroppo andata perduta in un incendio. Rimane però ancora la famosa scuola di massaggi ai quali corsi partecipano anche molti studenti internazionali.
                                                                                                                                  scopri di più

                                                                                                                                  Il Regno di Lanna e le Montagne del Nord

                                                                                                                                  Come nel caso della Thailandia centrale, fin dall alba del secondo millennio l intera area geografica che oggi genericamente denominiamo come Thailandia del Nord viene invasa da popolazioni di etnia Tai che rapidamente conquistano ed assimilano i preesistenti insediamenti Mon-Dvaravati. I Tai del nord creano però una propria realtà ben distinta, identificata in quello che oggi conosciamo come il Regno di Lanna e fondato dal grande e leggendario condottiero Mengrai alla fine del XIII secolo. Nel tempo, Siam e Lanna si evolveranno lungo percorsi storici paralleli che daranno luogo a corredi culturali, artistici e sociali con fisionomie ben differenziate. Se i Siamesi verranno stregati dalla magia di Angkor, Lanna porterà invece il marchio indelebile ed inconfondibile della mitica Bagan. Con il trascorrere dei secoli, il piccolo regno di Lanna si ritroverà schiacciato tra i giganti siamese e birmano che lottano per la supremazia sull intero sud-est asiatico. Per Lanna mantenere l indipendenza sarà sempre più difficile e a più riprese cadrà sotto l egemonia militare dell uno o dell altro colosso. Dopo la distruzione di Ayuttaya per mano birmana alla fine del XVIII secolo e la restaurazione del Regno del Siam da parte del generale Taksin il Grande, Lanna cadrà definitivamente sotto il dominio Siamese.
                                                                                                                                    scopri di più

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                                                                                                                                    Il periodo storico relativo al ruolo di dominazione Khmer sul Sud Est Asiatico è antecedente il Regno del Siam. Le opere architettoniche principali realizzate in quella che è l odierna Thailandia dai grandi conquistatori cambogiani e tramandateci fino ad oggi risalgono ad un arco temporale che si estende tra l inizio del X e la metà del XIII secolo. Il grande Re Jayavarman VII fece costruire nel cuore di Angkor il celebre tempio del Bayon con le sue possenti torri dalle quali giganteschi, enigmatici e misteriosi volti di pietra scrutavano l orizzonte in direzione degli sconfinati possedimenti dell Impero. Per consentire ai colossali e silenziosi guardiani di sorvegliare attentamente su tutte le province fu realizzata una fitta rete stradale che originava dal Bayon e conduceva alle città periferiche più strategiche. Tra queste, la Dharmasala Route era la più importante. Dopo aver attraversato le fertili pianure cambogiane in direzione nord-ovest ed aver raggiunto il Bantey Chhmar, il colossale monastero che il Re edificò in memoria del figlio caduto in combattimento, la strada si inerpicava tra le vette della catena del Dangkrek che delimita l altopiano superiore dell odierna Thailandia. Da lì a breve il percorso raggiungeva due gioielli architettonici edificati dai suoi predecessori: i monumentali templi del Muang Tam e del Phanom Rung. Costituito da un unica torre centrale con Mandapa e racchiuso da 3 possenti fila di mura perimetrali, il Phanom Rung torreggia imperioso alla sommità di una collina naturale la cui vetta venne livellata. La costruzione inizia molto probabilmente nell XI secolo sotto la dominazione di Re Suryavarman I. Nel XII secolo diviene la fissa dimora di Narendraditya, cugino di Suryavarman II che dopo una fulgida carriera militare decide di ritirarsi e dedicarsi alle attività spirituali. Tra tutti i monumenti tramandatici dai Khmer, il Phanom Rung è probabilmente il più ricco di sculture, di bassorilievi nonchè di incisioni in Sanscrito. Di queste ultime se ne contano ben undici! Una lunga scalinata sale il pendio e conduce fino al secondo muro di cinta che sul frontone propone un raffinatissimo bassorilievo di Shiva mentre con lo sguardo incenerisce Kama, il Dio dell amore.
                                                                                                                                      scopri di più

                                                                                                                                      Il Massaggio Thai e la Medicina Ayurvedica

                                                                                                                                      Ayurveda è l antica medicina indiana che si rivolge all individuo come insieme di mente e corpo. Vanta una tradizione millenaria e il suo nome deriva da ayu che significa vita e da veda: conoscenza. Da qui la definizione di scienza della vita , attraverso la quale, mente, corpo e spirito trovano l unità. Secondo l Ayurveda la responsabilità di molti dei nostri disturbi sono dovuti a resistenze e blocchi energetici, che anche attraverso il massaggio è possibile rimuovere. Il Buddismo fu il principale veicolo di diffusione attraverso il quale l Ayurveda fu portato dall India nel resto dell Asia. La diffusione del Buddismo si verificò principalmente attraverso gli sforzi del grande imperatore Ashota nel secondo secolo avanti Cristo. Convertito al Buddismo, Ashota, fu così coinvolto, che mandò un grande numero di monaci all estero per insegnarlo. Molti di loro conoscevano anche la medicina Ayurvedica e la diffusero. Ebbero un grande impatto sulle culture con cui entrarono in contatto e portarono, nei luoghi dove andarono, la loro conoscenza spirituale e terapeutica integrandola con le pratiche religiose locali. Il massaggio Thai è un massaggio medico praticato dai monaci buddisti della Tailandia. E stato tramandato da maestro e allievo per oltre 2500 anni. Combina i punti di digitopressione della Medicina Cinese con uno stretching assistito ispirato allo Yoga di derivazione indiana, che apre il corpo energeticamente e fisicamente. Lo scopo finale del Massaggio Tradizionale Thai è, sia per chi lo pratica che per chi lo riceve, il raggiungimento di uno stato di leggerezza e un elevazione emotiva e spirituale. Le sue origini si perdono nel mistero, ma sembra che derivi da una combinazione di medicina Ayurvedica indiana, di Yoga e di Medicina Tradizionale Cinese. Per permettere facilità di movimenti sia chi lo pratica che chi lo riceve deve indossare vestiti confortevoli. Tutto il lavoro viene svolto su un materassino a terra. All inizio del massaggio normalmente il terapista si concentra per alcuni momenti inginocchiato vicino al paziente, poi pone il palmo della mano destra sul ventre del paziente che, in accordo alla medicina cinese, è il centro dell essere umano. Quindi il fisioterapista inizia il massaggio ad un ritmo coordinato con la respirazione del ricevente per portarlo in uno stato di armonia. Chi pratica il massaggio Thai riuscirà anche a sentire la pulsazione del cliente e lo cullerà gentilmente e ritmicamente prima di iniziare ad applicare gli stiramenti e le pressioni. Controllare la pulsazione aiuta a concentrare sia il cliente che il terapista, mentre il cullare ritmicamente inserisce il cliente in un ritmo naturale e gli permette di lasciarsi andare gradatamente. Come altri tipi di massaggi, il Massaggio Tradizionale Thai aumenta l attività vascolare e promuove la liberazione di tossine dalle cellule. Ma oltre a questa attività fisiologica questo tipo di massaggio ha un attività di liberazione di energia. Perciò, dopo questo massaggio non ci si sente sedati, ma, al contrario, ci si sente come potenziati. Un altra unicità di questo tipo di massaggio è che le tecniche si spingono fino al limite delle possibilità del paziente, con l utilizzo delle mani, dei gomiti, delle ginocchia e dei piedi. Questa tecnica di massaggio è adatta anche e specialmente per atleti di discipline aerobiche, come chi pratica la corsa, il ciclismo, il calcio. Il massaggio può contribuire a ridurre il tempo di recupero lasciando il corpo rilassato e la mente sveglia. Nella foto l'ingresso del Wat Pho a Bangkok dove ha sede una delle scuole più antiche del Massaggio Thai tradizionale.
                                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                                        Sifnos e l'arte vasaia: un piccolo viaggio in una grande arte

                                                                                                                                        Già dall era preciclaiditica, gli abitanti di Sifnos sapevano che la natura aveva donato loro giacimenti di argilla di ottima qualità. Così, sfruttando questi ultimi, creavano utensili di ceramica, statuette o ornamenti per la loro vita quotidiana. Questa loro arte la conservarono e la migliorarono nel corso dei secoli, adattandola, di volta in volta alle condizioni culturali e sociali di ogni periodo. Nel XVII secolo ci fu il grande sviluppo economico, a cui seguirono la decadenza del secolo XVIII e gli eventi della nazione greca nel XIX. Nel corso di quegli anni, diminuì progressivamente la produzione dei tessuti di cotone e chiusero le piccole industrie tessili locali. Contemporaneamente, e mentre le colture agricole erano limitate, ci fu un aumento della popolazione, che causò un forte e pesante aumento della disoccupazione. Il problema fu risolto dagli stessi abitanti, da una parte con movimenti di emigrazione e dall altra con lo sviluppo dell arte vasaia. Quest ultima trovò terreno fertile nell abbondanza di abili artigiani e nella fonte inesauribile di materie prime (argilla, sole, acqua, cespugli). Fin dai tempi antichi gli abitanti di Sifnos si erano dedicati alla creazione di oggetti di ceramica per la casa, e principalmente di utensili per cucinare (tsikalia) e per trasportare l acqua (brocche, orci); e per questa loro attività divennero conosciuti in tutto il Mediterraneo. Negli anni prima della liberazione dai turchi, anche per paura dei pirati, i laboratori di ceramica si erano sviluppati nei quartieri di Artemonas e dei vicini centri abitati. Più tardi però, con il ritorno della pace nell Egeo, essi furono spostati nelle baie dell isola, e soprattutto in quelle che erano protette dai venti del nord. Vathì, Platys Ghialos, Herronnisos, Kamares, sono alcuni dei posti, che sono diventati centri importanti della produzione della ceramica. Anticamente, gli artigiani che lavoravano in questi centri uscivano di casa il lunedì e vi facevano ritorno il sabato pomeriggio o la sera. I prodotti venivano caricati su grandi barche, per essere venduti in altre regioni della Grecia o all estero. Già dal 1835, l esportazione di ceramica era fiorente, come è riferito in un documento stilato dal console francese di stanza dell isola. I laboratori di ceramica si dividevano in piccoli e grandi. Quelli piccoli erano a conduzione familiare e quasi tutti membri della famiglia vi lavoravano; invece, quelli grandi, per via della forte produzione avevano bisogno di molto personale. Tuttavia, col tempo, il numero degli artigiani aumentò tanto, che il suo numero divenne eccessivo per l isola. Questo ebbe come risultato l esportazione di manodopera artigiana altrove. Gli artigiani infatti, cominciarono ad emigrare piano piano in altre regioni, rimanendovi per brevi periodi o sistemandovisi definitivamente. Al principio si organizzavano in gruppi di due o quattro e partivano dall isola amata in primavera, per farvi ritorno in autunno. Di solito si recavano nelle isole vicine (Paros, Naxos, Andros), dove trovavano dell ottima alrgilla; organizzavano, così, il loro laboratorio, e rifornivano gli abitanti locali di tutti gli oggetti di cui avevano bisogno. Poi, in inverno, tornavano a Sifnos e si occupavano delle colture agricole. Altri si recavano ad Atene o altre regioni della Grecia per assicurarsi il pane quotidiano. La tradizione racconta che il primo artigiano vasaio emigrò ad Atene nel 1833. Tutti gli emigranti, comunque, incominciarono come lavoratori stagionali, ma alla fine si sistemarono definitivamente nelle regioni in cui si erano recati. Durante le sue ricerche, la scienziata, e amica dell isola, Eleni Spathari Begliti, ha incontrato artigiani di Sifnos, oltre che nell Attica, anche a Syro, Mani, Eraklio e Hanià di Creta, a Kolymbari, nella Calcidica, a Karisto, a Skopelos, a Mitilene, Tasso, Volo e altrove. La corrente principale di emigrazione, comunque si diresse verso le zone di Marussi, Ag. Paraskevì, Halandri e Kalogresa. Ad Atene, adattarono la produzione dei loro prodotti alle necessità locali. Così, prima dell istallazione dell impianto idrico e della comparsa di utensili da cucina in alluminio, venivano prodotti principalmente pentolame da cucina e orci per il trasporto dell acqua da Marussi ad Atene. D estate, inoltre, la richiesta aumentava, così i vecchi emigrati assumevano i nuovi arrivati da Sifnos, i quali, a loro volta, si stabilivano anche essi in città. Questa corrente a senso unico portò alla riduzione del numero di laboratori nell isola e al loro degrado. Tuttavia, lo sviluppo turistico di Sifnos, in combinazione con il ritorno di Greci e stranieri ai prodotti tradizionali, ha ridato vita a quest arte che aveva già dato da vivere a generazioni e generazioni di Sifnos. In questo modo, abbiamo la possibilità, visitando l isola, di trovare una grande quantità di oggetti di ceramica (orci, utensili per la cucina, cappe per i camini, e altre cose), fatti con argilla di Sifnos e dalle abili mani di artigiani di Sifnos.
                                                                                                                                          scopri di più

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                                                                                                                                          La mia famiglia e altri animali di Gerald Durrell (ed. Adelphi).
                                                                                                                                          Luglio 1935, da qualche parte lungo l'amena costa inglese. Piove e tira vento. Una donna e i suoi quattro figli, esasperati da quel clima francamente orrendo prendono l'unica decisione ragionevole che si possa prendere in frangenti simili: andare via, subito. Quella che sul momento appare una decisione improvvida, o forse un lampo di lucida follia, si rivelerà un atto di felice buonsenso e sarà all'origine di un libro che, a quasi cinquant'anni dalla pubblicazione, non ha perso una goccia della freschezza, dell'entusiasmo contagioso, della mediterraneità che lo caratterizzano. È così che Margo, Leslie, Lawrence, Gerald & mamma si trasferiscono sull'isola greca di Corfù, dove rimarranno cinque anni. La mia famiglia e altri animali racconta la storia, o meglio, le storie di questi cinque anni, abitati da una teoria di personaggi buffi e strampalati e da centinaia di animali che contribuiranno ad accrescere nel futuro etologo Gerald Durrell quella sconfinata passione per la natura (e per la scrittura) che lo accompagnerà per il resto della sua vita. Antonello Bacci
                                                                                                                                            scopri di più

                                                                                                                                            La cucina Marocchina -

                                                                                                                                            La cucina del Marocco è stata a lungo considerata come una delle cucine più variegate al mondo, a causa dei rapporti e scambi commerciali del Marocco con il resto del mondo per secoli, è un mix costituito da cucine orientali, cucine mediterranee, cucine africane e cucine locali dei berberi. Il Marocco produce una vasta gamma di frutta e verdure mediterranee e perfino alcune tropicali. Ricette del MaroccoIl paese alleva grandi quantità di pecore, pollame, bestiame, frutti di mare ed pesce. Le spezie sono molto usate nelle ricette marocchine, e mentre queste sono state importate per secoli d altri paesi, lo zafferano, la menta, le olive, le arance e i limoni sono di produzione nazionale. Le spezie comuni sono rappresentate da: la cannella, il kamoun (cumino), il kharkoum (curcuma), lo skingbir (zenzero), il libzar (pepe), la paprica, i semi di sesamo, il kasbour (coriandolo) e il prezzemolo. del Marocco Il pasto di mezzogiorno rappresenta nella cucina marocchina il pasto principale, con eccezione del mese santo del Ramadan. Il pasto convenzionale tipico inizia con una serie di insalate calde e fredde. Il pane è mangiato ad ogni pasto. Un piatto di pollo o spesso di agnello è seguito dal couscous preparato con carni e verdure. Una tazza di tè alla menta dolce è spesso usata per concludere il pasto. Il piatto principale marocchino è il couscous, un piatto molo antico e probabilmente di origine berbera. Il pollo è la carne il più mangiata nel Marocco. Fra i piatti marocchini più famosi troviamo il Couscous, la Pastilla, il Tajine, il Tanjia e la Harira. Sebbene quest'ultimo sia una zuppa, è ugualmente considerato un piatto tipico ed è servito in occasioni di festa e soprattutto durante il mese del Ramadan. I dolci non sono necessariamente serviti alla fine di un pasto. Il dessert comune è il kaab el ghzal ("corni di gazelle"), che è un dolce farcito con la pasta di mandorla e zucchero. Un altro dessert tipico è la torta di miele. Biscotti tipici sono gli Halwa Shebakia, mangiati soprattutto durante il mese del Ramadan. La bevanda più popolare è il tè verde alla menta. E'tradizione che il saper fare del buon tè verde alla menta, è considerato in Marocco una forma di arte, e berlo con amici e familiari è uno dei rituali più importanti del giorno. Il tè è accompagnato con i coni o i grumi duri zucchero.
                                                                                                                                            In foto: "Khabar"... Un famoso piatto della tradizione marocchina.
                                                                                                                                            Come fare Khabar:
                                                                                                                                            Ingredienti (per 6-7 persone) 500 gr di manzo 4 uova (intere) 2 zucchine 2 melanzane 3 carciofini 2 peperoni 3 cipolle 3 carote 10 petali di rosa 2 mazzetti di prezzemolo q.b. di saleq.b. di olio di semi (per friggere)q.b. di pepe (se piace)
                                                                                                                                            Preparazione: Tagliare le verdure a fettine sottili e cuocerle alla griglia. Lessare le carote e tagliarle a julienne. Dopo la cottura tagliare ancora le verdure per ottenere delle listarello molto sottili. Tritare un paio di volte la carne di manzo. Unire al trito di carne tre uova, le cipolle finemente tritate, il prezzemolo tritato grossolanamente ed il sale. Formare delle palline con la carne, infarinarle, passarle nell'uovo sbattuto e nel pangrattato. Friggere le polpettine ottenute in abbondante olio. Servire le polpettine su un letto di petali di rose (lavato ed asciugati) sul quale sono state disposte le verdure alla griglia. Spolverare di pepe.
                                                                                                                                            Per ulteriori informazioni visitare il sito ufficiale: www.ricettedalmondo.it/khabar.html
                                                                                                                                              scopri di più

                                                                                                                                              Il popolo Amazigh

                                                                                                                                              Il Nord Africa è ampiamente raffigurato come una parte del mondo arabo o viene anche associato con il Medio Oriente, dando così luogo allo sfortunato equivoco che vede gli arabi come indigeni del Nord Africa. Eppure c'è una vasta popolazione di non- arabi in Nord Africa: i veri popoli indigeni della regione. Questi si chiamano Amazigh, Imazighen è il plurale, una parola che significa "popolo libero" nella lingua indigena Tamazight . La terra nativa degli Imazighen è una regione che si chiama Tamazgha, che si estende oltre i confini che comprendono il Marocco, l Algeria, Tunisia, Libia, Sahara occidentale, Mauritania, Isole Canarie, e alcune aree d'Egitto, Mali e Niger. Per una serie di motivi ideologici e storici, oggi con tale nome si è soliti designare solamente coloro che, in Nordafrica, parlino ancora la lingua berbera (tamazight). Anche se varie fonti stimano questa popolazione con un numero di circa 30 milioni di anime, questa è una stima molto bassa, considerando il fatto che almeno il 60 % della popolazione marocchina si identifica come Amazigh, traducendosi in un numero di 18 milioni di abitanti nel solo Marocco. All'interno del gruppo etnico Amazigh, ci sono vari sotto gruppi regionali come i Cabili, i Rifians, e i Tamasheq, noti anche come Tuareg. Oltre i confini della regione di Tamazgha , si trovano altri gruppi indigeni del Nord Africa, come i Nubiani con le proprie lotte contro il colonialismo arabo. Nel 7 ° secolo dC , gli eserciti arabi della penisola arabica iniziarono a dare luogo alle conquiste musulmane del Nord Africa, invadendo la Tamazgha e assoggettando i nativi alla loro religione, imponendo la loro supremazia sulle spalle dei popoli colonizzati. A questo proposito si contano innumerevoli esempi di repressione nei confronti degli Imazighen e di violazioni dei diritti umani sotto i regimi nordafricani. In seguito a insurrezioni per l'autodeterminazione, un numero imprecisato di Tamasheq sono stati uccisi in massacri di rappresaglia.
                                                                                                                                                scopri di più

                                                                                                                                                Il Souk, cuore pulsante della medina

                                                                                                                                                Una passeggiate nel souk è una meravigliosa festa dei sensi. Ma il piacere raddoppia se lo scopo della passeggiata è la scelta di un anello, un bastone da passeggio, un tappeto, un paio di babbucce, un cesto di vimini, spezie rare e profumate. Perché per partecipare davvero alla vita del souk bisogna seguirne i rituali, frugare, mercanteggiare, comprare. Mercanteggiare è un arte da praticare con il sorriso sulle labbra davanti a un tè alla menta. Una trattativa diventa spesso fonte di conversazione cordiale e amichevole. Del resto sarà proprio una lunga trattativa ad aggiungere valore all acquisto. Nelle città imperiali, l artigianato tradizionale è vivo, dinamico, di eccezionale qualità. Rabat è famosa per i ricami, i tappeti ed il vasellame di Salè. Meknès per i lavori in legno, gli animali di metallo ricamati di fili d argento e per i mosaici. Fès è la capitale dell artigianato. Eccone le specialità: le famose ceramiche dipinte col blu di Fès, i vassoi in rame, gli oggetti in cuoio. A Marrakech, il lavoro del cuoio è molto curato. I ciabattini cuciono le babbucce secondo metodi antichi. La regione è famosa anche per l incredibile varietà delle spezie e per la qualità dei tappeti berberi.
                                                                                                                                                  scopri di più

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                                                                                                                                                  Le voci di Marrakech di Elias Canetti (Ed.Adelphi)
                                                                                                                                                  Le voci di Marrakech sono sprazzi di vita nei quali ci si addentra incuriositi e d improvviso ci si ritrova nel calore e nei colori dei suk, luoghi di incomparabile fascino e mistero.  Qui, in ogni bottega stracolma di oggetti, un commerciante ci invita ad entrare, pronto ad irretirci nell arte della contrattazione e, come dice l autore, a parare ogni colpo con destrezza . Ogni capitolo è uno squarcio di emozioni nelle quali, chi non è mai stato in un qualsiasi Paese nordafricano, riesce facilmente a calarsi e chi le ha già provate si ritrova volentieri. È di una dolcezza struggente la voce di una donna celata da una grata, che ci raggiunge mentre ci addentriamo negli stretti vicoli della città. Le donne: tessuti svolazzanti nell aria, che si muovono frettolosamente ed a cui si tenta inutilmente di avvicinarsi. Anche Canetti, come qualsiasi viaggiatore disponibile a lasciarsi guidare dalle proprie sensazioni, riesce a catturare e a portare con sé parte della vitalità di questo mondo, al punto da provarne, una volta ritornato a casa, una struggente nostalgia.  Alessandra Rossi
                                                                                                                                                    scopri di più

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                                                                                                                                                    Una volta, quando le navi fenicie, cartaginesi, romane e portoghesi si incrociavano lungo le coste marocchine, le spiagge di sabbia bianca e la rada di Essaouira li attiravano in modo irresistibile. Piume di struzzo, sale, spezie, aloe, zucchero, cereali, porpora, cavalli, polvere d oro, stoffe… A Essaouira si trovava tutto ciò che sognava un marinaio o un imperatore. Città fortificata dalla sorprendente eterogeinetà architettonica, oceano che delizia surfisti e sub, insenature selvagge, sole generoso mitigato da una leggera brezza, artigianato famoso in tutto il Marocco, gustosa cucina regionale, accoglienza sorprendentemente spontanea… A Essaouira, l antica Mogador, si trova tutto ciò che sogna un viaggiatore. Sulla skala della casbah sono allineati i famosi cannoni di Essaouira. Questo luogo emerso dal passato fu scelto da Orson Welles per girare le scene in esterno del suo Otello. Salite sopra la torre quadrata. Ai vostri piedi danzano macchie di colori vivaci: sono le piccole flotte dei pescherecci. Le esclamazioni dei pescatori che distendono le reti e dei marinai che scaricano cassette di pesce argentato vi giungono attutite. L aroma delle sardine alla griglia vi solletica le narici. Non ci si annoia mai contemplando il porto di pesca di Essaouira.
                                                                                                                                                      scopri di più

                                                                                                                                                      Safari in Québec

                                                                                                                                                      Il Canada è famoso nel mondo per la ricchezza della sua fauna. Qui vi elenchiamo gli avvistamenti più frequenti, tra costa, laghi e foreste, in un viaggio nel Canada orientale LE BALENE DEL SAN LORENZO
                                                                                                                                                      Dalla fine di maggio a metà ottobre il fiume San Lorenzo diventa luogo d'incontro dei cetacei: ben 13 specie frequentano le acque del fiume e si possono osservare con whalewatching organizzati sull'acqua, in kayak o semplicemente passeggiando lungo la costa. L'OCA DELLE NEVI
                                                                                                                                                      In aprile il passaggio delle oche delle nevi è un avvenimento da non perdere. In migliaia lasciano il Sud degli Stati Uniti per fermarsi ai confini del fiume San Lorenzo a Cap Tourmente, a Montgmagny o nella Baie du Febvre. Lo stesso fenomeno si ripete in ottobre quando le oche lasciano il Grande Nord per le regioni del Sud degli Stati Uniti. Percorrono circa 4000 chilometri. Solo nella regione di Cap Tourmente ce ne sono circa 800.000. IL CARIBU'
                                                                                                                                                      La transumanza dei caribù dei boschi è una delle cosa da vedere almeno una volta nella vita. E'l'unico animale terrestre a percorrere così tanti chilometri all'anno. Con i suoi spostamenti migratori si muove per ben 6000 chilometri. A nord del cinquantaduesimo parallelo si possono vedere i gruppi più numerosi di caribù, intorno al fiume George oppure vicino al Labrador. LA SULA BASSANA
                                                                                                                                                      Un uccello marino dal corpo affusolato, con ali strette e un becco a punta leggermente ricurvo; la sua struttura corporea è perfettamente adatta per tuffi e immersioni. Ha un piumaggio di colore bianco immacolato, con le punte delle ali nere. Gli occhi sono grigio-azzurri e circondati da pelle nuda e nera. In primavera va a nidificare all'Isola di Bonaventura, a poco più di tre chilometri da Percé, in Gaspésie. Ce ne sono più di 40.000 coppie. Monogamo, questo uccello marino occupa ogni anno lo stesso nido per attendere il partner a cui sarà fedele per tutta la vita. IL CERVO DELLA VIRGINIA
                                                                                                                                                      Anticosti, l'isola del Golfo di San Lorenzo grande come la Corsica, è stata per parecchi anni il paradiso di caccia e di pesca del re del cioccolato francese Henri Menier. E per ripopolare la zona, nel 1895 introdusse 220 cervi della Virginia. L'adattamento dei cervi è stato considerato tra i più riusciti: oggi, infatti, la comunità di cervi comprende oltre 100.000 esemplari. Cervo Virginia L'ORSO NERO
                                                                                                                                                      L'incontro con un orso nero è sempre un momento emozionante. Piuttosto timido di carattere si spaventa facilmente per la presenza umana. Ma è possibile vederlo con pazienti appostamenti durante l'estate quando scende nelle vallate per nutrirsi di piccoli frutti. L'ALCE
                                                                                                                                                      Nella riserva faunistica di Matane e nel parco d'Aiguebelle le chance di incontrare il re della foresta canadese sono davvero tante. Ci sono molti tour organizzati per l'osservazione di questi giganti che possono arrivare a 650 chili. IL BELUGA
                                                                                                                                                      E'la piccola balena bianca che vive nel fiume San Lorenzo e nel Fiordo di Saguenay: una comunità isolata che fu separata da quelle artiche durante la seconda glaciazione. La roccaforte della specie è qualche migliaio di chilometri a nord, nelle acque circumpolari di Canada, Groenlandia, Siberia e Alaska.
                                                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                                                        Quebec City: Canada inaspettato

                                                                                                                                                        Il caldo e il sole, da giugno e fino ad agosto inoltrato, trasformano Ville de Québec (o Quebec City, per dirla all'ìnglese), il cuore del Canada francofono e tra le città più antiche del continente nordamericano. Le strade si animano, i tavolini appaiono di fronte ai ristoranti ma soprattutto, è tempo di festival. Si va dal teatro di tutto il mondo, raccolto al Carrefour International theatre festival (fino al 10 giugno), al più divertente evento dedicato alla risata e alla commedia, il Grand Rire dall'8 giugno al 1 luglio. Ancora, dal 23 giugno al 1 settembre vanno in scena le acrobazie di Les Chemins invisibles, ultimo successo del Cirque du Soleil mentre dal 23 al 24 giugno è la festa nazionale, con il suo corollario di fuochi d artificio e concerti. Dal 5 al 15 giugno il più importante tra gli appuntamenti cittadini, il Festival d été de Québec, unisce nuovi talenti a grandi nomi come Bon Jovi, Aerosmith e The Offspring. Gli amanti dell opera e della lirica hanno l opportunità, dal 25 luglio al 5 agosto, di seguire Le Festival d opéra de Québec e si termina, dal 21 al 26 agosto, con le bande del Festival International de musiques militaires. Eventi di portata internazionale in linea con il motto cittadino: Je me souviens . Québec non dimentica le proprie radici ma che si apre al mondo. Rinnovandosi. Tra vecchie glorie e quartieri emergenti. Si parte dal Nuovo Saint-Roch, quartiere operaio a lungo abbandonato e oggi effervescente distretto della moda e della creatività. Simbolo della rinascita il Parco Saint-Roch, un oasi verde nel cuore del quartiere, dove abitano giovani imprenditori e artisti. Da non perdere rue Saint-Joseph, dove ha aperto Le Cercle (Saint-Jospeh Est 226-228, tel. 001.418.9498648), ristorante e art gallery: si mangia e si possono vedere mostre, ascoltare concerti di artisti locali e non solo. Tutto in un unico spazio dinamico e gestito da giovani. E si fa tardi, la sera ci si ferma al vicino Delta Quebec Hotel, con le sue camere comode e pulite, con grandi vetrate che guardano sulla città, arredate nei toni chiari del crema e del beige. La zona più visitata della città è la Città Vecchia, con le piccole case colorate e trompe-l œil sulle facciate. Dalla Basse alla Haute Ville le atmosfere evocano la Montmartre parigina, mentre dall alto domina il Château Frontenac, castello che domina da secoli lo sperone roccioso della città vecchia con una fortezza di 17 piani. Al suo interno, una preziosa collezione di mobili e oggetti firmati nell 800 dall architetto modernista Viollet-le-Duc. Chi restasse affascinato da queste atmosfere si può fermare, a due passi da qui, al Loews Le Concorde, con le sue stanze eleganti, ampie e luminose, arredate con legno scuro e tendaggi chiari. Tocchi di colore, tra cuscini rossi e quadri nei toni dell'arancio, riscaldano l'ambiente. Appena usciti, si passeggia qui attorno a Basse Ville, reticolo di borghetti acciottolati attorno a place Royale. Brulicante di giorno tra botteghe, caffè e gallerie d arte, suggestivo alla sera, ricorda un borgo antico della Normandia. In particolare nella strettissima rue du Petit-Champlain, la più antica strada commerciale dell America settentrionale. Da qui si sale verso la Haute Ville, via scale o funicolare (la stazione di partenza è al n. 16 di rue Champlain). Si arriva così sulla Terrasse Dufferin, fantastico view point proprio di fronte al Château Frontenac. Quando la fame si fa sentire, si ridiscende per fare un pit stop gourmand al Simple Snack Sympathique (rue Saint-Paul 71, tel. 001.418.6921991), meglio conosciuto come le tre S . Il suo bistrot propone insalate o piatti di pesce: il menu cambia ogni giorno, a seconda degli ingredienti disponibili. Tra le passeggiate fuoriporta, da non perdere, a solo 10 minuti d auto, le Cascate di Montmorency, tra le dieci più alte del Canada, con un salto di 85 metri, una volta e mezzo le cascate del Niagara. Una conclusione più suggestiva che mai, ça va sans dire.
                                                                                                                                                          scopri di più

                                                                                                                                                          Yala National Park

                                                                                                                                                          Questo meraviglioso e affascinante parco, fino a qualche decennio fa una riserva di caccia, dichiarata zona protetta nel 1938, racchiude in una superficie di 1.500 kmq diversi tipi di fauna: savane alternate a giungla tropicale e un lungo tratto di costa dove ci sono delle lagune salmastre. I sentieri in terra rossa e sabbia, ed i grandi animali che si possono trovare al suo interno ricordano al visitatore tratti dell'affascinante continente Africano. Sono diversi gli animali che fanno di questo parco il proprio habitat: tra elefanti, cervi, scimmie, diversi tipi di uccelli, coccodrilli e con un colpo di fortuna anche leopardi. La stagione migliore per visitare questo favoloso parco, va tra febbraio e luglio quando i livelli dell'acqua del parco sono quiete e basse portando cosi allo scoperto, gli animali. I grandi serbatoi distribuiti nel parco rappresentano la salvezza del regno animale, soprattutto durante la stagione secca. Uno dei luoghi più famosi del parco sono Sithulpauwwa, cui nome significa: collina dalla mente tranquilla. L'antico tempio di roccia è un luogo di culto per molti devoti. La storia racconta che anni or sono, questo tempio abbia ospitato fino a 12.000 monaci. La visita al Parco Yale, lascia un'impronta indelebile, che tu sia un appassionato amante della natura o che sia la tua prima volta in un parco naturale, se visiti questo luogo con il desiderio di esplorare e conoscere, andrai via pieno di emozioni e sensazioni mai vissute prima.
                                                                                                                                                            scopri di più

                                                                                                                                                            Il Buddhismo nello Sri Lanka

                                                                                                                                                            Il Buddhismo è la principale confessione religiosa dello Sri Lanka. La leggenda vuole che Siddartha Sakyamuni Gauthama Tahatagata, cioè il Buddha storico, sia venuto tre volte a Ceylon e le sedici località in cui soggiornò sono le mete di pellegrinaggio più importanti del paese. Buddha scelse l isola quale paese in cui la sua dottrina era destinata a sopravvivere nella sua forma originale. E in Srilanka che i discorsi del Buddha , trasmessi oralmente nel corso dei secoli dopo la sua morte, sono stati trascritti per la prima volta in pali, durante una riunione di monaci nel I secolo a. C., nel tempio di Aluvihare, vicino a Matale. Semplificando moltissimo, le basi del buddhismo sono da considerarsi le quattro nobili verità: il ciclo della vita (nascere, vivere, morire) è sofferenza la causa di questa sofferenza è data dal desidererare/attaccamento solo raggiungendo lo stato di assenza di desiderio si ottiene la vera felicità si arriva al Nirvana o illuminazione infine , per raggiungere questo scopo, occorre guardarsi dentro, dominare la propria mente e trovare la pace interiore; questo processo evolutivo è chiamato il cammino di mezzo. (vivere con moderazione) Il buddhismo di Srilanka appartiene dunque alla tradizione ortodossa e rigoristica del Theravada ( la dottrina degli anziani ) o Hinayana ( il Piccolo Carro). Il Sangha, l ordine monastico, è strutturato in maniera stabile e gerarchica. Le dagobe , i caratteristici santuari a cupola, custodiscono secondo la tradizione relique del Buddha. I due centri religiosi più importanti di Sri Lanka sono Anuradhapura dove si trova il sacro albero del Bodhi e Kandy con il santuario che custodisce la Sacra Reliquia del Dente di Buddha. Nel mese di agosto qui si svolgono le feste della Perahera, con grandiose processioni notturne, illuminate dalle fiaccole, in cui sfilano elefanti sontuosamente bardati, schioccatori di frusta, danzatori, musicisti. Il Tempio del Dente a Kandy Festa buddhista di ogni mese è il Poya o Plenilunio, quando i fedeli si recano ai templi a pregare portando fiori, incensi ed altri doni. Il piu importante Poya è il VESAK, che rappresenta il culmine del calendario buddhista : si tratta , infatti, del mese della nascita , dell illuminazione e della morte del Buddha. In tutto il paese si organizzano dansal ovvero offrono gratuitamente il pranzo o la cena e le bevande a tutti i passanti (un'antica tradizione dei buddhisti di sri lanka Il giorno di plenilunio del mese di Poson (giugno) una suggestiva processione ha luogo a Mihintale, nei pressi di nuradhapura dove circa 2500 anni fa, il principe indiano Mihindu (il filgio del grande imperatore Ashoka) porto personalmente il messaggio del Buddhismo, ed incotro Tissa il re di Sri Lanka . I giorni di luna piena da dicembre ad aprile sono invece occasioni per ascensioni al Picco di Adamo, montagna dal carattere sacro.
                                                                                                                                                              scopri di più

                                                                                                                                                              Lo Scuba Diving alle Maldive

                                                                                                                                                              I mari caldi delle Maldive favoriscono le lunghe immersioni e un alta un alta visibilità del reef durante tutto l arco dell anno. La trasparenza delle loro acque permette, a volte, di scorgere un pesce a cinquanta metri di distanza. Bisogna anche aggiungere che alle Maldive si può trovare una meravigliosa formazione di più di 3000 barriere coralline. I monsoni, inoltre, caratterizzano il flusso delle maree. Il risultato di queste perfette condizioni fa sì che le barriere coralline maldiviane siano le più complete al mondo per fare scuba diving. Più di mille specie di pesci e creature marine si trovano nelle acque delle Maldive. Le maree monsoniche dell Oceano Indiano creano un insieme di piccole creature marine e cellule di piante microscopiche. Tutto ciò fa sì che queste acque siano il fulcro dove tutte le specie sottomarine si incontrano, perché richiamate dall abbondanza di cibo. Nelle Maldive si può vedere di tutto, dai gamberetti ai gruppi di pesci dai colori vivaci, dalle magnifiche mante agli squali, e chiunque presti attenzione a tutto ciò , lo ricorderà per tutta la vita.La cosa bella e che non bisogna essere dei professionisti dello scuba diving, in quanto tutti i resort e le barche turistiche offrono training, usando attrezzature controllate e ad alto livello. Anche il più riluttante allo scuba diving può godersi il mondo subacqueo delle Maldive, facendosi guidare da istruttori con esperienza. Un immersione nella barriera corallina circostante all abitazione e allo stesso modo soddisfacente e tutto ciò che bisogna fare e nuotare, allontanandosi di qualche minuto dalle scogliere. Considerando che, tra i 26 atolli delle Maldive, ci sono innumerevoli barriere coralline, e possibile fare immersioni in luoghi differenti a soli 15 o 60 minuti via nave. Nelle Maldive, solitamente lo scuba diving ha luogo presso una ‘faru (una barriera corallina), un ‘thila (un acquario sommerso in un canale, come fosse una barriera corallina che si unisce all oceano) o presso un relitto. Lo scuba diving notturno e un esperienza particolarmente bella perché permette di vedere creature minuscole, interessanti e generalmente indifferenti alla presenza dell uomo.Lo scuba diving consente anche di incontrare e giocare con i pesci più grandi del mondo tra i quali le razze giganti e gli squali balena. La manta gigante (Manta birostris) è la più grande delle razze, può pesare fino a 3000 Kg e le sue ali possono superare i 7 metri di larghezza, lo Squalo Balena (Rhincodon typus) è il più grande squalo e pesce del mondo, vive negli oceani tropicali e spesso si incontra in mare aperto, il Pesce napoleone (Cheilinus undulatus) conosciuto anche come pesce Maori, So Mei, Mameng, vive nella barriera corallina.
                                                                                                                                                                scopri di più

                                                                                                                                                                Il Massaggio Ayurvedico

                                                                                                                                                                Non solo profumi di terre lontane e piacevoli pressioni manuali sul corpo. Il massaggio ayurvedico è questo ma è anche molto di più: è un antico rito di bellezza che ha regole ben precise rispettatate con dovizia quasi religiosa da millenni. Basta recarsi in un centro benessere specifico per accorgesene. Suoni che richiamano alla mente la natura, odori in cui abbandonarsi, atmosfere che invogliano alla calma e al relax. Un massaggio ayurvedico inizia così, immergendosi nello spirito della cultura di India e Sri Lanka, culla dell'ayurveda. Il cliente viene fatto distendere su un materasso a terra, la sua schiena è ricoperta di olio aromatico e massaggiata con delicatezza ed energia allo stesso tempo, dal bacino al collo. Al termine del trattamento, la massaggiatrice intona un delicato canto indiano. Questo tipo di massaggio non è, quindi, un semplice trattamento estetico ma un rito della cultura ayurvedica per la bellezza del corpo e dello spirito. Secondo l'Ayurveda, infatti, la salute e la bellezza dipendono dai tre dosha, Vata, Pitta, Kapha, a cui corrispondono i quatto elementi: aria per Vata, fuoco per Pitta e terra-acqua insieme per Kapha. Ogni persona ha un dosha prevalente rintracciabile da alcune carattersitche fisiche. Chi è più Vata è magro con la pelle secca. La persona Pitta ha una pelle con macchie e incarnato opaco e spento. Chi è Kapha, tende a prendere peso facilmente, ha la pelle grassa e soffre di cellulite.
                                                                                                                                                                  scopri di più

                                                                                                                                                                  Il Mare a Sri Lanka

                                                                                                                                                                  Dopo un tour archeologico nello Sri Lanka, il viaggio trova la sua naturale prosecuzione, dedicando qualche giorno al relax con un soggiorno al mare. Generalmente per abbinare questa estensione dallo Sri Lanka, viene spontaneo pensare ad un soggiorno alle Maldive, dimenticando che lo Sri Lanka offre magnifiche spiagge dove si trovano hotel di livello internazionale in grado di offrire tutti i comfort, ma anche piccoli villaggi di pescatori con possibilità di sistemazioni molto economiche ma dignitose. Non bisogna dimenticare che sulla costa sud dello Sri Lanka le zone protette dalla barriera corallina sono però limitate a poche piccole baie. Questo fa si che su queste coste non ci siano le condizioni per la formazione delle lagune coralline, invece presenti in abbondanza alle Maldive. Sulla costa sud di Sri Lanka si trovano molti villaggi e cittadine dai nomi più o meno conosciuti. Sin dagli anni sessanta i giovani europei, australiani, nordamericani, venivano su queste spiagge a ricercare se stessi e il giusto senso della vita o a imitare i curiosi metodi di pesca dei pescatori di Weligama. Poi, come spesso è accaduto anche in molti altri luoghi del mondo, agli hippy si sono sostituiti i grandi alberghi a 5 stelle. Questo è il segno che talvolta il turismo di elite, ma anche quello di massa, trovano spunto per il loro business da viaggiatori idealisti.
                                                                                                                                                                    scopri di più

                                                                                                                                                                    Leggere per conoscere Patagonia

                                                                                                                                                                    Leggere è come un viaggio tra le parole,
                                                                                                                                                                    una strada che qualcuno ha già percorso e che noi intraprendiamo con curiosità rielaborando il cammino del nostro pensiero. Alcuni libri più di altri ci spingono a superare questo limite e ad avventurarci nel mondo reale. In Patagonia di Bruce Chatwin (Ed. Adelphi) è uno di questi libri, annotazioni di incontri, che l autore ha avuto durante il suo girovagare per la Patagonia e che ci svelano racconti straordinari. Attraverso gli occhi di Chatwin osserviamo i paesaggi desolati che devono avere visto coloro che sono arrivati qui tanto tempo fa; è attraverso le storie che lui ha raccolto, che scopriamo lo spirito di questa terra ribelle ma incredibilmente affascinante e con le quali ci prepariamo ad affrontare un viaggio diverso da qualsiasi altro. Alessandra Rossi
                                                                                                                                                                      scopri di più

                                                                                                                                                                      Il nulla, però lontanissimo e infinitamente grande

                                                                                                                                                                      Epitome dell'erranza, mutevole orizzonte dell'anima, elogio della solitudine: una terra primigenia, battuta dai venti e spossata dalla lontananza, in cui nulla ha valore ma ogni cosa è preziosa. Una terra eccentrica, irreale, inafferrabile, un desiderio che non sapevi di avere, una nostalgia ingiustificata, un luogo che è sempre esistito da qualche parte dentro di te. Il nulla, però lontanissimo e infinitamente grande.
                                                                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                                                                        Il Tè Malese

                                                                                                                                                                        Si chiama Thea Sinensis, e ogni anno ottocento miliardi di tazze con le foglioline di questa pianta miracolosa vengono bevute dagli umani di tutta la Terra. Il miracolo avviene da parecchi secoli, se si dà retta alle leggende: nel 2737 a.C. un imperatore cinese a caccia si imbattè nella piantina selvatica e, meravigliato per i suoi aromi, ne fece un infuso nazionale. Anzi, internazionale, se è vero che oggi ci sono tremila varietà di tè nel mondo e la bevanda gode di tanta considerazione. I giapponesi lo hanno ritualizzato e gli inglesi lo hanno globalizzato, come capita sovente alle cose di questi due popoli. In Malaysia, la situazione è intermedia. Nel 1885 l imperial surveyor William Cameron esplorò le colline che sono un po la dorsale della penisola malese e che culminano nel picco Gunung Tahan, a 2000 metri. Colline arrotondate, bei panettoni verdi e morbidi, che attirano su di sé le nuvole, e per questo ricordano un po la Grande Bretagna. Un clima un po umido, il verde negli occhi, la temperatura calda, il massimo per un suddito britannico. Cameron diede il nome a quelle colline, visto che allora la Malaysia faceva parte dell Impero Vittoriano. Nel Novecento, sul finire dei Venti, vennero altri inglesi e in quel tappeto verde piantarono del tè. Russell lo fece fondando una compagnia che oggi domina la produzione di pregiato tè malesiano, la Boh Tea Estate. Ancora oggi il paesaggio è quello: verde intenso, con il tè che cresce sui pendii. Si possono vedere le piantagioni, la raccolta, visitare i centri dove il tè viene lavorato. Il processo di trasformazione è lungo: si seccano le foglie con la ventilazione, poi si rollano fino alla rottura delle cellule vegetali, che liberano gli enzimi dell ossidazione. Inizia allora la fermentazione controllata che forma gli aromi e i profumi del tè. Poi si secca ancora l insieme, per metterlo a maturare nei contenitori. Questo è il processo per il tè malese, ma esistono tè semi fermentati e non fermentati. Ogni visita termina con la degustazione di vari blend e l acquisto del tè preferito. Prosit. Valerio Griffa
                                                                                                                                                                          scopri di più

                                                                                                                                                                          Malesia senza pregiudizi

                                                                                                                                                                          Non rivelerò il mio nome, la mia età, la mia razza, la mia religione, la mia dieta e le mie inclinazioni sessuali perché ciò non farebbe che alimentare il pregiudizio. Ed è mio dovere evitare che questo avvenga poiché, in questo paese, la grande battaglia sociale, politica, economica e morale è condotta proprio contro il pregiudizio! Tale impegno caratterizza questo popolo, rendendolo eroico e forse ingenuo, ma sempre entusiasta e pronto ad andare avanti! Ed è per questo semplice motivo che amo la Malesia. Non ci si stanca mai di vedere l evoluzione all opera. Ci aiuta a valutare la storia in funzione di quello che siamo e ci permette allo stesso tempo di liberarci dal peso storico. Un privilegio che si acquista con la moneta della libertà mentale! Altrimenti ci rimangono solo i monumenti, monumenti che qui sono assenti! Non è trascorso ancora abbastanza tempo per costruirne ma sopratutto per gloriarsene scrivendo libri falsi per poi smentirli e sentirsi all avanguardia per la smentita. I famosi cicli un giorno si innescheranno anche in questa giovane terra ma per il momento lo spauracchio del pregiudizio fa sì che ciò ancora non succeda. I monumenti da ricercare in Malesia sono parte dell umanità tutta: sono natura grandiosa in tutte le sue forme. Dalle profondità oceaniche ricche di caledoscopi corallini, alle vette delle montagne del Borneo, dalla foresta pluviale più antica del mondo alle grotte più estese dello stesso mondo! E un unico spaccato di umanità! Verticale, diagonale e orizzontale! Popoli e tradizioni di gran parte dell Asia sono qui rappresentati così come lo sono le tribù del Borneo che vivono ancora secondo tradizioni millenarie animiste e i private banking manager tutti rolex e lexus degli agglomerati urbani. Passando per la dolce realtà rurale fatta di cose semplici ed ordinate, di linearità di fronte a ciò che è per cui non vale la pena accelerare! Qualcuno vuole portare un po` di pregiudizio? Raccomandiamo la vacanza villaggio! Qui bisogna venire in incognito, senza nome, senza età, senza razza, senza religione, senza dieta e senza inclinazioni sessuali. Qui si è senza tempo, si è parte del tutto, si venera l essenza di ciò che è, si mangia tutto ciò che c è (che è vario e buonissimo) e ci si concede alla seduzione di cui è impregnata l aria di ogni angolo! Ed è facile. Facile da raggiungere, facile da girare, facile da parlare. Come giovane nazione protesa in avanti vanta un altissimo livello di istruzione ed una popolazione molto giovane ed urbanizzata. L inglese è la lingua franca più comune, del lavoro e dei media più importanti. Cosa di meglio e di non ammuffito può offrire una grande città? Le reti stradali e ferroviarie sono ottime e girare il paese è semplice e gradevole! E le spiagge dove rinfrancarsi dalle emozioni del viaggio sono fantastiche! Non vorrei dilungarmi oltre, è possibile che vi stiate già facendo delle idee sul paese e questo va contro i principi sino ad ora elencati! La Malesia è qui, pronta da accogliervi nel suo grembo! E voi siete pronti a spregiudiziarvi?
                                                                                                                                                                            scopri di più

                                                                                                                                                                            Il Tempio di Ananda e il Thatbyinnyu il Tempio più alto di Bagan

                                                                                                                                                                            È sotto il comando di Kyanzitta che viene edificato il meraviglioso e superbo tempio di Ananda. La capacità e le qualità degli architetti di Bagan consegneranno alla storia un edificio religioso magistralmente edificato su proporzioni sorprendentemente imponenti, capace di resistere all azione dei secoli e passando attraverso numerosi e violenti terremoti fino a presentare ai nostri occhi le sue intatte gallerie interne ricche di migliaia di nicchie con raffinate statue del Buddha nonchè le quattro statue principali poste sui punti cardinali. Ma la vera peculiarità di Ananda e di pochi altri templi di Bagan è costituita dalla bellezza degli affreschi originali ancora molto ben conservati che ricoprono interamente i muri interni ed i soffitti delle nicchie ai punti cardinali. Al fianco del tempio di Ananda si trova un antichissimo ed insolito monastero buddista: l Ananda Khyaung. Di piccole dimensioni ed edificato in pietra, è dotato di una galleria che percorre tutto il perimetro interno della costruzione isolando una piccola cella priva di finestre al suo centro. Sia i muri della galleria che della cella sono interamente tappezzati di stupendi affreschi che narrano in parte temi religiosi ma anche episodi storici e di vita comune. Alcuni di questi ritraggono reggimenti dotati di armi da fuoco. Altri rappresentano invece volti probabilmente di origine europea. Non lontano dal tempio di Ananda si trova anche il Thatbyinnyu noto per essere il tempio più alto di Bagan estendendosi per ben 60 metri verso il cielo. Edificato da Re Alaungsithu, successore di Kyanzitta e probabilmente l ultimo grande Re di Bagan, il Thatbyinnyu è uno dei primi riusciti tentativi di creare strutture a più piani. Si presume che i livelli superiori, accessibili attraverso strette scale interne, costituissero vere e proprie residenze per i monaci rompendo così con la tradizione Buddista che generalmente vede i monaci risiedere in edifici esterni alle parti consacrate e costruiti in legno. Nell antichità la pietra veniva infatti riservata generalmente ai soli Dei. Un ulteriore elaborazione dello stile multipiano la troviamo al Dhammayangyi che, pur essendo più basso del precedente, presenta ugualmente un primato: quello di essere il tempio dalla pianta più estesa di Bagan. Visto da lontano, proietta una forma originale e suggestiva a piramide. Venne edificato da Re Narathu, sanguinario figlio di Alaungsithu che passerà alla storia come l uccisore del padre per la conquista del trono. La leggenda racconta che, in età avanzata, Narathu si dedicherà alla costruzione di questa stupefacente opera architettonica per l acquisizione di meriti religiosi che possano perdonare le crudeltà commesse. A partire dal XIII secolo si entra nel tardo periodo di Bagan. Governanti militarmente sempre più deboli si dedicano in modo sempre più intenso alla vita spirituale e alla preghiera, consegnando a Bagan alcune tra le testimonianze architettoniche di maggior valore e sensibilità. Htilominlo, che siede sul trono di Bagan dal 1211 al 1234 DC, commissiona la costruzione del sontuoso tempio a più piani che oggi porta il suo nome e che è noto per la raffinatezza di alcune modellazioni a stucco sui muri esterni. Qualche anno più tardi lo stesso Re commissiona infine la costruzione, in prossimità delle rive dell Irrawaddy, di una replica del tempio Mahabodhi che sorge nella città indiana di Bodhgaya e che viene considerato dai fedeli buddisti come il luogo nel quale il Buddha raggiunse l illuminazione. A Bagan si trovano anche alcuni interessantissimi templi che costituiscono degli intricati e difficilmente comprensibili sincretismi religiosi dove diverse forme di culto buddista si fondono all induismo. Al Nathlaung Kyaung possiamo ad esempio rilevare la presenza di diverse statue di una divinità rappresentata in posizione eretta e dotata di almeno 4 braccia le cui mani sorreggono gli oggetti tipici del Dio induista Vishnu. All estremità sud orientale della valle dei templi troviamo invece un gruppo di costruzioni dedicate al buddismo Mahayana o probabilmente al buddismo tantrico. Si tratta del Thambula, del Payathonzu e di altri edifici ad esso vicini.
                                                                                                                                                                              scopri di più

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                                                                                                                                                                              Cronache birmane di Guy Delisle (Ed. Fusi orari)
                                                                                                                                                                              L autore è Guy Delisle, un disegnatore canadese, che si ritrova a vivere un anno in Birmania con la sua compagna ed un figlio di pochi mesi. Da questa sua esperienza è nato un libro a fumetti che rappresenta un approccio certamente singolare per raccontare un Paese martoriato da anni di dittatura, dove ogni piccolo problema quotidiano rappresenta un ostacolo da superare. Come quando l autore si mette alla ricerca di una boccetta di inchiostro e, solo dopo una settimana, riesce a trovarne una. A momenti di vita quotidiana si alternano spiegazioni, ad esempio, riguardo la situazione sanitaria nel Paese ed il ruolo rappresentato in tale ambito dalle Ong, oppure in merito alla censura attuata dal regime sui giornali e su internet. Nonostante le difficoltà incontrate, l autore riesce a trasmettere comunque l immagine di un popolo gentile e disponibile ed a narrare, in modo spesso anche divertente, quella che è l attuale realtà birmana dove, a parole come democrazia, libertà e giustizia si sono sostituite dittatura, censura e soprusi quotidiani.  Alessandra Rossi

                                                                                                                                                                              Le città invisibili di Italo Calvino (ed. Mondadori).
                                                                                                                                                                              Atlante di luoghi sognati, riflessione sul potere evocativo delle parole, saggio in forma di poesia su stanzialità ed erranza, repertorio delle stravaganze urbanistiche possibili e impossibili… Le città invisibili sono tutto questo e molto altro ancora, ma soprattutto sono un libro bellissimo. Seduto sul suo trono, affatto scoraggiato dall'incomprensibilità dell'altrui lingua, il Kublai Khan immagina le cinquantacinque città che Marco Polo, mercante, viaggiatore e ambasciatore, affabula e gesticola dinnanzi a lui, suscitandole ad una ad una con pochi, sapienti tratti. Detto così, sembra niente: e invece è una straordinaria folgorazione, di quelle che ti cambiano la percezione delle cose. Per sempre. Poi, se proprio ci tenete a sapere cosa diavolo c'entra questo libro con la Birmania, potrà essere utile sapere che: 1) Fu il Kublai Khan a decretare la fine dell'impero birmano e della sua capitale Bagan, che si accartocciò su se stessa nel 1287, forse erosa da un devastante incendio, o forse subitamente abbandonata prima che cadesse nelle mani dei Mongoli. 2) Marco Polo ebbe l'opportunità, forse unico tra gli Europei, di vedere Bagan in tutto il suo splendore, prima che il Kublai Khan la radesse al suolo (oppure che venisse subitamente abbandonata…). 3) Una volta tornati a casa, il ricordo dell'intollerabile bellezza di Bagan continuerà a tormentarvi i giorni e le sere, costringendovi a leggere e a rileggere incessantemente ogni singola pagina del libro per vedere se veramente lì dentro, tra le tante Città invisibili, non ce ne sia una disseminata di templi che voi avete avuto la buona sorte di camminare non molto tempo prima...    Antonello Bacci
                                                                                                                                                                                scopri di più

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                                                                                                                                                                                Sono stati sussurri di caravanserraglio, forse vanteríe di carovaniere a spingere fin qui il mercante, a cavallo di voci che fantasticavano di una città smarrita lungo le rotte della seta. Le dita incerte su grani di preghiere, aggrappato ai passi ciechi di una fede che non si vuole delusa, è giunto fin qui il pellegrino, strappato al suo romitaggio dal racconto estatico di un monaco. Il marinaio vi si imbatte inopinatamente a imbocco d'ansa, nel giorno sesto di una navigazione piatta e monotona, lungo l'Ayeyarwady. A lui, che solo ha negli occhi il mare, quell'orizzonte frastagliato di pietra sembra un miraggio. A volerlo nominare, quell'incanto sarebbe Bagan. A saperla guardare, una teoria sterminata di edifici religiosi: zedi bulbiformi, patho di pietra antica, e poi reliquiari, templi, bianchezza di cattedrali intruse e riverenza di terrazze assolate... A metterci piede, però, un senso di vuoto avvelena inesorabilmente la meraviglia; e ciò che di lontano ammaliava ora sgomenta. Perché Bagan è priva di ogni via di comunicazione, di qualunque tessuto connettivo tra i vari stupa. Sola nella solitudine di ogni suo zedi è Bagan: una città di omissis, di parole perdute, pervasa di assenza. Dialoghi perduti si intrecciano e si perdono in lei, tra mille e mille solitari templi. A Bagan infatti non ci sono strade battute, e presto il visitatore si smarrisce davanti alla varietà di tratturi mulattiere saliscendi che a lui proprio non riesce di immaginare, quadrivi e biforcazioni di cui vede benissimo l'esito, ma quello e quello soltanto, e non il tracciato che vi conduce. Lo sconforto quasi lo assale mentre traccia passi ignoti lungo direttrici inconsce. Raccontano le cronache che, incapaci di scegliere tra le infinite variazioni del possibile e raccapricciati all'idea di escludere anche una sola delle sue eventuali ramificazioni, gli abitanti di Bagan vollero che ognuno dei futuri visitatori potesse disperdere nel vento i propri passi, affidando al caso la tracciatura urbanistica della città. Impreparati a simile arbitrio, alcuni viaggiatori si affidano al capriccio degli astragali: se mai le loro traiettorie potessero incrociarsi, li si vedrebbe specularmente intenti a scrutare il proprio destino nel rotolare di ossi di pecora. Ma questo non avviene mai, perché a Bagan questa eventualità non è data nelle infinite e mutevoli forme del possibile. Antonello Bacci e Marco Graffi
                                                                                                                                                                                  scopri di più

                                                                                                                                                                                  L'architettura di Bagan

                                                                                                                                                                                  Nella zona archeologica di Bagan sono presenti due principali tipi di struttura architettonica: lo stupa ('zedi'in birmano) e il pahto, o tempio. Lo zedi è un edificio o monumento funebre contenente una reliquia (per esempio un dente o un capello del Buddha). Molti zedi furono costruiti per ricordare e onorare un notabile locale o una famiglia importante. Gli zedi di Bagan sono cupole a forma di campana, sedute su una pianta quadrata o ottagonale. Le più antiche sono a forma di bulbo, quelle più recenti sono invece alte e sottili. La reliquia è generalmente conservata in una camera sotterranea, non visitabile. Il pahto, luogo di adorazione, ha invece la forma di un parallelepipedo cavo che contiene immagini del Buddha. I templi più antichi, di chiara influenza indiana, hanno un solo ingresso, che porta a una cappella a volta in cui è custodita un'immagine del Buddha. L'intero complesso è molto austero e spartano. Quelli più recenti si sviluppano a partire da una massiccia colonna centrale che porta un Buddha per ogni lato cardinale, diametralmente opposti a ciascuno dei quattro ingressi. Questi templi, oltre ad essere più ariosi e luminosi all'interno, sono decorati in maniera quasi barocca all'esterno con stucchi, fregi e affreschi. Tipica di Bagan è l'abitudine di decorare non le pareti, lasciate completamente nude, ma ciò che sta sopra e attorno alle pareti (archi e pilastri, per esempio). Il pahto è caratterizzato da una serie di terrazze esterne, accessibili tramite cunicoli interni o scale esterne, che simboleggiano il Monte Meru, ed è circondato da spesse mura che separano il regno sacro dal mondo esterno. Il termine "pagoda" è invece improprio: l'equivalente birmano, paya, si riferisce in generale a un intero complesso religioso ed è talvolta usato come sinonimo di stupa.
                                                                                                                                                                                    scopri di più

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                                                                                                                                                                                    Nel 1989, il nome dell'allora Birmania venne ufficialmente cambiato in Myanmar, creando non poca confusione tra tutti coloro che avevano iniziato a vagheggiare di Terre d'Oriente sui banchi di scuola. Vediamo allora se poche righe di storia (senza eccessive pretese) ci aiutano a capire meglio a cosa è dovuto questo cambiamento. Il 4 gennaio 1948 segna la data dell'indipendenza della Birmania (Burma in inglese, traslitterazione fonetica di Bamar, l'etnia dominante sul territorio),che assunse la forma costituzionale di una confederazione di stati ed etnie (Bamar, Shan, Mon, Kayin, Kayah, Chin, Kachin e Rakkhaing le principali). Negli anni successivi il paese fu sconvolto da numerose rivolte etniche e minacce di secessione da parte dei singoli stati, le cui pretese di autonomia vennero però azzerate dal colpo di stato del 1962. Nel 1989, allo scopo di favorire la creazione di un'identità nazionale comune per tutti i gruppi presenti sul territorio, il nome del paese venne trasformato da Birmania (= terra dei Bamar) in Unione del Myanmar (o Myanmar), suddivisa su base etnica in vari stati e divisioni.
                                                                                                                                                                                      scopri di più

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                                                                                                                                                                                      Con il nome Naga viene indicato un gruppo di tribù Indo-Mongole che parlano una lingua Tibeto-Birmana e vivono in una remota regione montana al confine con l'India. All'incirca un milione di Naga vive in India, mentre 100.000 abitano nei villaggi tra i monti Patkai (detti anche Monti Naga) nell'estremo nord del Myanmar, lungo il confine indiano, nel bacino del fiume Chindwin. Tradizionalmente fieri guerrieri e fino a pochi anni fa cacciatori di teste, i Naga hanno difeso le loro terre dalle invasioni degli Indiani e dei Birmani. Diversamente dai Wa, che attribuivano ai teschi umani il potere di proteggere la loro società e i raccolti, i Naga uccidevano per la gloria personale e per la gloria dei loro villaggi. Si ritiene che la pratica di tagliare le teste sia sopravvissuta fino all'inizio degli anni '80. I Naga non avevano l'usanza di comprare teschi, come invece facevano i Wa. Essi compravano degli schiavi che successivamente decapitavano: i loro teschi venivano esposti in ceste appese alle canne di bambù, le palpebre sigillate da frecce per essere sicuri che il loro fantasma proteggesse il villaggio. Molti dei villaggi in cui vivono i Naga si trovano in aree montagnose e inaccessibili, ma una volta l'anno quasi tutta la popolazione Naga scende dalle montagne per partecipare ai festeggiamenti per il nuovo anno. Vestiti con i loro costumi tradizionali, i guerrieri Naga eseguono canti e danze di guerra terribili e impressionanti per mostrare il loro valore di cacciatori ed attirare le donne non sposate, vestite dei loro costumi più pittoreschi.
                                                                                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                                                                                        Cuba para bailar

                                                                                                                                                                                        "¡Cuba para bailar!" una delle frasi più ricorrenti nelle canzoni cubane, spiega molto bene l'importanza della musica per questa nazione. La musica tradizionale cubana costituisce un patrimonio artistico noto e apprezzato a livello mondiale. Lo stile di vita dei cubani stessi è strettamente legato alla musica che accompagna pressoché tutti i momenti della vita, in forma sia di canto, sia di ballo, sia di esecuzione strumentale. L'isola di Cuba ha sviluppato un'ampia gamma di stili musicali creoli, basati sulle origini culturali europee e africane. In questo articolo ci occuperemo principalmente di uno dei più popolari balli caraibici: La salsa Per comprendere la genesi della salsa bisogna partire dal Son, da cui ogni altro genere avrebbe tratto origine, da Cuba, dove i ritmi africani degli schiavi hanno conservato e sviluppato le proprie radici mescolandole alle tradizioni musicali europee, dal Flamenco andaluso, alla Romanza francese. Dobbiamo risalire alla fine del 700, quando nell'isola di Haiti le ribellioni degli schiavi neri spinsero molti latifondisti francesi a insediarsi nella regione Cubana d'oriente, sancendo l'inibizione della "contaminazione" musicale : balli figurati e quadriglie venivano reinterpretati dalle percussioni dei neri, dando origine al Danzon Cubano, il primo ritmo che rappresenta la sintesi dei due continenti. Nel 1901 Cuba ottiene l'indipendenza dalla Spagna e, paradossalmente, la musica di origine africana subisce una maggiore repressione rispetto al precedente dominio coloniale: l'aristocrazia proibisce l'uso dei tamburi, considerati un simbolo di tradizioni selvagge. In tal modo il Danzon si diffonde nei salotti borghesi mentre nelle campagne continuano a proliferare i ritmi basati sulle percussioni. Tra le più popolari è il Son Montuno e proprio questo diverrà la base ritmica della salsa. Il Son è il più vigoroso genere carnevalesco di fronte al quale qualsiasi canzone si converte in una anticanzone qualsiasi contenuto nella parodia di questo. Una burla non solo destinata a suscitare sorrisi o risate, ma con una forte carica critica armonizzata dalla coniugazione di ritmi e contrappunti ritmici. Si può definire un canto popolare, canto in cui la parte lirica che espone il tema è costituita dal Son propriamente detto, mentre il Montuno è il gioco di domande e risposte tra coro e solista. Sulla base ritmo-timbro-armonica inizia l'interpretazione della melodia o del motivo, con le variazioni locali e strumentali e nel finale la parte più grezza e scherzosa per il crescendo di improvvisazioni, più veloce della precedente, un cambio di senso proiettato verso l'assurdo, a volte espresso solo dal coro. Dal Son prenderanno vita la Rumba, il cui termine indicava le feste collettive degli schiavi liberati, la variante conosciuta come Conga, dal nome del tamburo che segnava il passo, e quindi la Graracha, un Son dal testo picaresco che avrà una straordinaria diffusione negli anni trenta. Da una variante del Danzon, il Danzonete, deriva invece il Mambo, impostosi sulla scena mondiale dal 1948 hanno in cui Pérez Prado, allora conosciuto pianista, ispirandosi alle big band americane, lanciò questo nuovo ritmo che la chiesa bollerà addirittura come indecente e osceno per la carica erotica implicita nel ballo. Ciascuno di questi ritmi costituirà l'origine o l'ispirazione per molti altri, come un albero genealogico dalle radici comuni, fino al Merengue, la Cumbia, passando per la Bomba, la Plena, La Pachanga e altri generi. Alla fine arrivò l'influenza del Jazz, con l'ingresso dei tromboni nei "conjuntos" (gruppi) musicali. Allora il terreno sarà finalmente fertile per far fiorire la somma di tutto questo : la SALSA, fusione di un vasto complesso di ritmi afroantillani che si condensano in questa parola conferendole un significato semantico e una localizzazione geografica. La salsa, ritmo il cui principale merito è di essere riuscito ad infrangere le barriere razziali, a dare voce e identità alle minoranze latine emarginate cancellando i confini tra i paesi latino americani.
                                                                                                                                                                                          scopri di più

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                                                                                                                                                                                          A EST DELL AVANA di Roberto Goracci (Edizioni TEA )
                                                                                                                                                                                          Che cosa c è di meglio per conoscere un Paese che decidere di trasferirsi lì, vivendo in una capanna di campesino ed organizzando un attività con il proprio catamarano? E quello che fa Roberto, il protagonista e scrittore di questa avventura a Cuba. Il suo lavoro di accompagnatore turistico gli consente di vivere in quest isola un esperienza unica, in cui, agli stereotipi di sole,mare e musica si affiancano racconti sui problemi reali da affrontare ogni giorno, legati sia all embargo che alla mentalità rivoluzionaria ed ormai datata dei vari dirigenti del regime. Si tratta di una piacevole lettura in cui episodi anche divertenti ci avvicinano allo spirito del popolo cubano in grado di cavarsela in ogni occasione con fantasia, determinazione e … una buona dose di furbizia.
                                                                                                                                                                                          Alessandra Rossi
                                                                                                                                                                                            scopri di più

                                                                                                                                                                                            Cuba Libre

                                                                                                                                                                                            Molti lo servono, ma pochi ne conoscono la storia e le sue peculiarità, per questo abbiamo pensato di creare questo breve articolo proprio sulla sua origine. La storia di Cuba Libre (Traduzione Cuba Liberata) risale al 1898 quando le truppe americane liberarono l'isola di Cuba dal dominio spagnolo. Una delle tante storie recita così: Una sera un gruppo di soldati statunitensi che erano fuori servizio Corps Riders capitarono in un bar dell'Avana. Fausto Rodriguez, un giovane soldato, ricordò che il capitano Russell ordinò del rum, Coca-Cola, ghiaccio e una fetta di lime. Il capitano bevve con molto piacere che suscitò l'interesse dei soldati attorno a lui. Rum e Coca-Cola è stato un successo immediato per tutti i soldati. Quando ordinarono un altro giro, un soldato propose un brindisi per la nuova Cuba liberata "Per Cuba Libre". Il capitano alzò il bicchiere e cantarono il grido di battaglia che aveva ispirato i soldati vittoriosi nella Guerra d'Indipendenza. Si presume quindi che a questo cocktail sia stato dato il nome di Cuba Libre a causa della recente liberazione dell'isola dal dominio delle truppe spagnole. Ricordiamo che oltre il rum bianco, la Coca Cola e il lime, inizialmente nella ricette erano presenti anche alcune gocce di Angostura. Un altra storia narra che alcuni agricoltori di lime, agrume esotico originario dei paesi di quelle zone, usavano dissetarsi con il rum di prima distillatura, che donava carica ed energia nei lavori pesanti. Il rum appena distillato, se fatto raffreddare bene, è dolce e gustoso di certo toglieva la sete per pochi istanti, ma un giorno di bufera un carico di lime cadde da un carro e si sparse sotto le ruote dello stesso rovinando i frutti per la vendita. Invece di essere buttato venne utilizzato mischiando il succo leggermente acre con il rum, dato che parte dei lime erano caduti in un barile che conteneva una libra di rum bianco appena distillato e ancora caldo. Il lime liberò il succo nel rum che divenne più aspro e dissetante tanto da conquistare i gusti degli agricoltori. La coca cola è arrivata in seconda battuta. Infatti il gusto della coca cola originale era meno dolce e aggiunta alla mistura di rum e lime donava un gusto pieno e rotondo al mix già esistente. Insomma fu un'invenzione ottima dei barman cubani mixare il sapore leggendario del rum-lime a quello delicato, prima di uno spruzzo di cola. Per finire un'altra curiosità: Il cubano "D.O.C." che si reca al bar per bere questo cocktail ultra dissetante non dice mai al barman voglio un Cuba Libre , ma esegue un gesto quasi scaramantico e inconfondibile attraverso la combinazione di due movimenti della mano destra: dapprima esegue un gesto come a volersi lisciare le guancie dopo una rasatura (questo vuole mimare la barba di Fidel Castro), e poi con il dito indice esegue un passaggio dall estremità sinistra della gola all estremità destra come a voler mimare un accoltellata (questo evoca l uccisione). La combinazione di questi due gesti significa Fidel Castro Morto e quindi Cuba Libre ovvero Cuba Libero dalla dittatura.
                                                                                                                                                                                              scopri di più

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                                                                                                                                                                                              Parte prima: sacrifici umani Quando, nel 1519, la spedizione di Hernando Cortés entrò in contatto con gli Aztechi, si scoprì che questo popolo praticava una forma ‘statalistica di sacrificio umano e di cannibalismo su scala mai eguagliata né prima né dopo. Le stime del numero delle vittime messe a morte e mangiate annualmente si aggirano tra un minimo di 15.000 e un massimo di 250.000. La maggior parte di questi erano nemici catturati in battaglia, ma non mancavano schiavi e prigionieri di sesso femminile e addirittura bambini e neonati delle famiglie del popolo. I sacrifici rituali venivano effettuati di giorno, in piazze monumentali e templi, alla presenza di folle straboccanti. Le vittime venivano portate in cima alle scale delle piramidi che sorgevano nel centro della capitale Tenochtitlàn (sita nell area in cui oggi sorge Città del Messico). Davanti alle statue di pietra delle principali divinità, quattro sacerdoti-macellai afferravano saldamente la vittima, ciascuno tenendola per un arto, e la adagiavano su una pietra bassa e spianata. Un quinto sacerdote, allora, gli apriva la cassa toracica, strappandone via il cuore ancora pulsante, e lo comprimeva contro una statua, mentre gli inservienti facevano lentamente scivolare il corpo della vittima giù per la scalinata della piramide. Quando questo arrivava ai piedi della stessa, altri inservienti ne staccavano il capo e consegnavano il resto al seguito del ‘proprietario , cioè del capitano o dell aristocratico i cui soldati avevano catturato il defunto. Il giorno seguente, il corpo veniva tagliato a pezzi, e gli arti cucinati e mangiati nel corso di un banchetto cui partecipavano il proprietario e i suoi ospiti: la ricetta preferita era lo stufato insaporito con pepe, pomodori e gigli triturati. Il tronco e il cuore venivano (probabilmente) gettati agli animali dello zoo reale, mentre la testa veniva conficcata su una lancia di legno e disposta in bella mostra su una ‘rastrelliera dei teschi assieme alle teste delle precedenti vittime. La più ampia di tali rastrelliere era collocata nella piazza principale di Tenochtitlàn, e poteva contenere fino a 60.000 teschi. I sacrifici umani erano ritualizzati ed avevano lo scopo di commemorare gli avvenimenti più importanti sul piano storico, quali vittorie militari o costruzioni e ampliamenti di piramidi e templi. In occasione dell ultima riconsacrazione della piramide di Tenochtitlàn, avvenuta nel 1487, si calcola che nel corso di quattro giorni e quattro notti siano stati sacrificati dai 15.000 ai 70.000 prigionieri i quali, contrariamente a quanto si vuol far credere, non collaboravano assolutamente al loro sacrificio... Parte seconda: cannibalismo La società Azteca è l unica tra le grandi società di tipo statale a praticare il cannibalismo, dove per cannibalismo è da intendersi il consumo socialmente accettato di carne umana stante la disponibilità di altri cibi. Ma cosa li spingeva a tale pratica? Bisogna innanzitutto mettere in chiaro che il cannibalismo è un sottoprodotto della guerra guerreggiata: altrimenti detto, non si va in guerra per procurarsi carne umana, ma si mangiano i prigionieri. Ciò significa che i costi sostenuti vengono accollati per intero ai costi della guerra. Ma come spiegare che lo Stato Azteco fu l unico a non reprimere il cannibalismo guerresco? Valeva la pena di mangiarsi i prigionieri, distruggendo così un potenziale di ricchezza qual è la forza lavoro umana? La scelta dell élite Azteca di mangiarsi la gallina dalle uova d ora è in buona parte probabilmente da ascriversi alla scarsa disponibilità di buone fonti di cibo animale, tanto che alcuni antropologi hanno messo in luce il legame tra la pratica del cannibalismo e l assenza, presso gli stessi Aztechi, di erbivori addomesticati: e proprio la carenza di fonti di cibo di origine animale aumentava il valore del nemico in quanto carne e ne diminuiva il valore quale servo, schiavo e contribuente. È forse opportuno sottolineare che il grado di generale povertà e fame non costituiva una differenza di fondo tra il sistema di sussistenza degli Aztechi e il sistema di sussistenza di tutte le altre società di tipo statale che repressero con vantaggio il cannibalismo. È probabile che i contadini indiani o cinesi non vivessero molto meglio dei contadini Aztechi. Le ristrettezze non si facevano sentire solo a livello di massa, ma anche a livello di élite militari e religiose e relativi seguaci. Reprimendo il cannibalismo guerresco, le élite del Mondo Antico registrarono significativi incrementi sia dal punto di vista della ricchezza che da quello del potere. Salvando la vita ai loro prigionieri, avevano la possibilità di intensificare la produzione di beni di lusso e di cibo animale destinato al loro consumo personale e alla ridistribuzione nell ambito dei loro seguaci. Forse anche la gente comune ne trasse un certo qual beneficio, ma non era questo il punto importante. Presso gli Aztechi, invece, la pratica del cannibalismo guerresco non comportò molti miglioramenti nelle condizioni di vita del contadiname. Ma continuò perché continuava a procurare benefici alla élite, e reprimerla avrebbe significato una diminuzione, e non un incremento, delle loro ricchezze e del loro potere.
                                                                                                                                                                                                scopri di più

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                                                                                                                                                                                                Nel mondo esistono ancora alcuni luoghi simili agli ambienti primordiali della Terra. Uno di questi si trova nel nord del Messico, nello stato di Coahuila, in una valle desertica chiamata Cuatro Ciénegas. Circondata da montagne alte fino a 3000 metri, la valle deve il suo nome a quattro antichi laghi che oggi si sono trasformati in circa 200 pozze blu cobalto: appaiono nel deserto come un miraggio. Sono ricche di specie viventi rare, alcune uniche, e conservano misteri biologici legati all'evoluzione della vita come le misteriose formazioni di stromatoliti. Nessuno ha però studiato l'idrologia sotterranea, e nessuno conosce l'origine delle acque nel deserto. È urgente farlo perchè questi ambienti, con tutti i segreti che contengono, stanno scomparendo. Il deserto avanza e i laghi si prosciugano, anno dopo anno, con un buon aiuto da parte dell'uomo: con le coltivazioni intensive, con le opere di canalizzazione che sconvolgono l'idrografia superficiale, con lo sfruttamento turistico indiscriminato di alcune pozze. Dal 1994 parte della valle di Cuatro Ciénegas è diventata riserva, ma cambiare la mentalità della gente non è facile. Una missione scientifica di geologi e speleologi, organizzata dall'Associazione Geografica La Venta di Treviso, ha dedicato 4 anni di ricerche alla soluzione del mistero sull'origine delle acque: l'ultima missione è appena terminata e presto uscirà un libro che racconterà la storia. L'esplorazione ha cominciato dalle immersioni subacquee nelle pozze sorgive e ha poi risalito l'ipotetico percorso delle acque esplorando i canyon, la sommità delle montagne, la profondità delle miniere scavate nel 1800: sempre alla ricerca di reticoli sotterranei. Sono stati percorsi centinaia di chilometri a piedi in montagna, trovate pitture rupestri sconosciute, discesi pozzi minenari di 500 metri, esplorate grotte lunghe e profonde. I risultati dicono che tutte le pozze sono di origine carsica, ma con un apporto di acque termominerali che escono calde in un solo punto e si raffreddano attraversando la valle. L'acqua ha origine in una sola montagna, chiamata San Marcos y Pinos, grazie a due fenomeni distinti: le scarse piogge e la condensazione provocata dalle violente variazioni di temperatura tipiche del deserto. Questi studi hanno aperto la strada alla conservazione, che speriamo possa salvare un luogo straordinario.
                                                                                                                                                                                                Tullio Bernabei
                                                                                                                                                                                                  scopri di più

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                                                                                                                                                                                                  Antonello Bacci

                                                                                                                                                                                                  Sotto il sole giaguaro di Italo Calvino (ed. Mondadori).
                                                                                                                                                                                                  Un breve, folgorante saggio di antropologia travestito da innocuo racconto. Un geniale filo rosso che lega la cucina messicana ai Maya, e non aggiungerò altro per non rovinare la sorpresa. E se vi è piaciuto, provate a leggere Buono da mangiare, di Marvin Harris (ed. Einaudi).

                                                                                                                                                                                                  La polvere del Messico di Pino Cacucci (ed. Feltrinelli).
                                                                                                                                                                                                  Uno che il Messico lo conosce per averne ascoltato senza fretta le voci e le lingue è sicuramente Pino Cacucci: dal suo narrare traspaiono l umiltà e la passione del viaggiatore, e la voglia di raccontare storie insolite, bizzarre, tristi e meravigliose. E se poi anche voi avete un lugar en el mundo cui sentite, confusamente ma in modo irrevocabile, di appartenere, leggetevi la brevissima, illuminante introduzione. Un gioiello.

                                                                                                                                                                                                  Donne dagli occhi grandi di Angeles Mastretta (ed. Zanzibar).
                                                                                                                                                                                                  Dalla penna di Angeles Mastretta prendono vita questi meravigliosi ritratti di donne messicane: altere, bigotte, tenaci, silenziose, innamorate, ruvide, sognatrici... Un miracolo di leggerezza, un incanto estenuante: un libro che ti salva l anima, se ce n è uno.

                                                                                                                                                                                                  Itinerari possibili di letture sul Messico suggeriti da Antonello Bacci
                                                                                                                                                                                                    scopri di più

                                                                                                                                                                                                    Un biologo al Museo di antropologia

                                                                                                                                                                                                    Sono sull'aereo che mi sta portando a Mexico D.F. e leggo qualcosa sulla storia di questo popolo, o meglio di questa raza. Non ci vuole molto perchè i miei pensieri entrino in risonanza con i ricordi di un altro 'sud del mondo'visitato qualche anno fa, il Brasile. Anche lì, fu storia di uomini e donne sradicati e sottomessi con un implacabile rituale di violenza e coercizione, ammantato di civiltà e benedetto con l'acqua santa. L'allegria di questi popoli condannati alla povertà materiale è l'unico aspetto che piace ricordare per scolorare quanto basta il segno doloroso lasciato in regalo dal progresso. All'aeroporto c'è una confusione rassicurante e gli sguardi e le espressioni, per me indecifrabili, mettono piacevolmente in fuga i miei ultimi, deboli tentativi di 'farmi un'idea'. Ancora non lo so, ma troverà la trascrizione del mio stato d'animo nelle parole di Pino Cacucci: "L'ingrediente più nefasto della cultura occidentale sia proprio questa nostra ormai istintiva consuetudine ad analizzare e giudicare filtrando i comportamenti altrui attraverso una rete di convenzioni che ci illudiamo siano assolute e scontate." Lascio per la prima volta scorrere dentro di me le immagini di vita, i suoni della lingua e i gesti così come li percepisco. E provo un piacere finalmente indescrivibile, in quanto completamente istintivo. I sorrisi e gli abbracci di chi mi accoglie hanno il potere di farmi dimenticare l'ansia che, sia pure sfumata, sempre accompagna i miei viaggi di lavoro. Così, il giorno dopo il mio arrivo in questa terra finora solo orecchiata, ancora stordito nel ritrovarmi sotto i piedi una terra altra, incontro quelli che nei giorni a venire saranno i miei colleghi di lavoro (lei messicana lui argentino, insieme un meraviglioso esempio di raza mestiza) ma che oggi sono semplicemente i miei angeli custodi e le mie guide nel lungo viaggio nella storia del Messico che mi appresto ad intraprendere. "Uno" dico in italiano e in spagnolo alla cassiera, e ribadisco la richiesta con un'alzata d'indice, fosse mai. Intorno a me, nell'atrio del Museo Antropologico, sento parlare soltanto messicano, una gradevolissima imitazione locale della lingua ispanica, che ha in più il vantaggio poter essere riprodotta senza troppi sibili e raschi di gola. Biglietto, resto, un gracias marcato dall'inconfondibile accento aquilano, e sono dentro. Passeggio e vedo gli oggetti esposti, leggo le note sui pannelli, prendo affannosamente appunti, mi aggrappo disperatamente alle descrizioni degli oggetti. Poi, inspiegabilmente, i miei passi e i miei pensieri si fanno più lenti mentre galleggio tra il Tempo di Mezzo, gli Aztechi e una riproduzione del campo della ullama. Pi? avanti, il mio viaggio nel tempo mi regala ricordi futuri di utensili impreziositi da lavorazioni squisite, che regalano una lievità sensoriale e immaginifica a strumenti destinati ad un uso monotono e ripetitivo. La sontuosità e la finezza di paramenti e capi di vestiario indossati in occasioni delle cerimonie religiose testimoniano di un percorso di ricerca e di acquisizione di abilità manuali sempre più evolute. Mi viene in mente l'espressione "avere le mani d'oro" e sorrido, perchè questa abilità manuale è una ricchezza nel vero senso della parola. Più in là, la celebrazione gioiosa e cruenta del raccolto rappresentata su ampi pannelli in pietra evoca la magia del rapporto di questo popolo con la Natura che, pur capricciosa ed ostile, regala il dono della continuità della vita sotto forma di chicchi di granturco. La lettura delle ricette poi mi coinvolge profondamente: la trasformazione della materia alimentare, che dalla necessità di dover conservare risorse preziose, ha faticosamente conquistato il lusso della varietà delle preparazioni per solleticare e scuotere i sensi. Tr i molti oggetti lavorati con pazienza e maestria ce n'è uno che mi commuove: un vaso di ossidiana, elegantissimo, traslucido, raffigurante una scimmietta. Resto ipnotizzato ad osservarla: e il ricordo recente di quanto visto in precedenza svanisce, spazzato via dalla presenza ormai tangibile di un popolo, di uomini e donne, dei loro affetti, e dei loro desideri e delle loro speranze. Alla fine di questo straordinario percorso museale, ricco dei prodigi della cultura e della spiritualità dei popoli indigeni, come tre colpi al cuore si materializzano altrettanti esempi dello scempio che i popoli conquistatori e saccheggiatori perpetrarono ai danni delle popolazioni indigene e dei loro manufatti: una pietra sacrificale trasformata in fonte battesimale, due pietre poste all'ingresso di un campo per l'ullama utilizzate per costruire un altare, e una piattaforma sempre in pietra lavorata trasformata in macina. Un'epitome impietosa, discreta ma efficace della fine di una civiltà. Nella logica della conquista viene spesso teorizzata la soppressione di ciò che c'era prima, l'annientamento indiscriminato di persone, cose e idee. E il Messico questa teoria fu implacabilmente applicata. Mi incammino verso l'hotel percorrendo il Paseo de la Reforma con la mente vuota e lo stomaco pesante. Le giornate di lavoro, i momenti divertenti e le sortite gastronomiche con gli amici messicani hanno saputo avvicinarmi al senso della messicanità in modo allegro, ma sempre accompagnato da un sottile malessere che definirei 'consapevolezza dignitosa'. Forse certi epiloghi rapidi e ineluttabili non cancellano la memoria, ma nel ricordo, a volte soffice e piacevole, altre tragico e doloroso, producono il curioso effetto di amplificare proprio ciò che era destinato all'oblio. Ugo Visconti
                                                                                                                                                                                                      scopri di più

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                                                                                                                                                                                                      Citronelle Tea
                                                                                                                                                                                                      La citronella (Lemongrass) viene coltivata sulle lussureggianti colline del Morne Blanc, a Mahé, e le sue foglie sono utilizzate in infusione per la preparazione di una bevanda rinfrescante e rivitalizzante, calda o fredda, o anche come digestivo dopo i pasti. L olio estratto dalle foglie è, invece, utilizzato nella cosmesi locale. E possibile organizzare un escursione per visitare la piantagione del tè fondata nel 1962 sul versante occidentale di Mahé per scoprire la lavorazione anche di questa pianta e godere della fresca aria di montagna e di panorami mozzafiato.
                                                                                                                                                                                                      Anse Coco, La Digue
                                                                                                                                                                                                      Quest incantevole baia sul versante orientale dell isola di La Digue è accessibile solo a piedi tramite un sentiero che parte da Grand Anse o da un percorso che parte da Anse Fourmis. La spiaggia è più protetta rispetto alle vicine Grand Anse e Petit Anse e a differenza di quest ultime non presenta pericoli per il nuoto per le forti correnti. Il cammino nella foresta sarà ripagato da un paesaggio selvaggio e acque cristalline – un piccolo paradiso nascosto.
                                                                                                                                                                                                      Le Jardin du Roi
                                                                                                                                                                                                      Il giardino delle spezie, denominato Jardin Du Roi Spice Garden, si trova a Mahé nella zona di Anse Royale e fa rivivere l atmosfera dell XVIII secolo quando il commercio di spezie era uno dei bastioni dell economia dei paesi colonizzatori. Ubicato in cima ad una collina e nelle valli sottostanti dove crescono piante di vaniglia, citronella, cannella, noce moscata, pepe ed altre spezie oltre che a piante endemiche medicinali offre il meglio della natura. Spezie, candele decorative fatte a mano e piante medicinali rare possono essere acquistate allo Spice Shop che attira clienti da tutto il mondo ed è possibile anche fermarsi a gustare le specialità creole nel ristorante tipico. Nel piccolo museo e nell antica casa padronale si possono osservare interessanti manufatti e documenti sull agricoltura e la storia. I visitatori possono passeggiare a loro piacimento e per i più avventurosi si può organizzare del trekking (è necessario un preavviso di 24 ore)
                                                                                                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                                                                                                        Seychelles Praslin Dream in Catamarano

                                                                                                                                                                                                        La crociera viene effettuata a bordo del catamarano Mojito 78 ,estremamente spazioso e confortevole, lungo 24m, viaggia ad una velocità di circa 25 km/h. Il catamarano dispone di 12 cabine doppie climatizzate ,perfettamente equipaggiate con TV a schermo piatto e bagno privato. Il catamarano è adatto ad ospitare un numero massimo di 24 passeggeri. Si tratta di un'imbarcazione agile e sportiva, ideale per navigare sotto costa tra le isole di questo arcipelago. A bordo sono presenti varie attrezzature per diversi sport acquatici: Pesca (su richiesta anche pesca d alto mare), 2 kayak per solcare le acque meno profonde, attrezzatura da sub (su richiesta), equipaggiamento per lo snorkeling ed attrezzatura per la pesca. Mojito 78'dispone a bordo anche di un maestro di diving professionista per assistere e dare lezioni ai viaggiatori. L'equipaggio comprende anche il cuoco, dinette interna ed esterna, uno spazioso ponte arredato di lettini prendisole.
                                                                                                                                                                                                        Ogni cabina e sala comune è dotata di ventilatore e a disposizione dei passeggeri ci sono 2 sets di lenzuola, asciugamani da bagno e per la spiaggia, uno stereo radio/player con casse. Alcuni catamarani hanno anche generatore elettrico 110/220v per 24 ore al giorno, aria condizionata, TV e DVD. Nonostante le crociere nelle Inner Island delle Seychelles sono praticate tutto l anno grazie al clima mite, i mesi di Aprile, Maggio e Novembre sono generalmente i migliori grazie al mare quasi totalmente calmo e sono perfetti per lo snorkeling e le immersioni.
                                                                                                                                                                                                        Le quote di partecipazione includono tutte le tasse locali e sono soggette a cambiamenti senza preavviso. I passeggeri dovranno pagare direttamente in loco le tasse dei parchi marini, le entrate nelle riserve come quelle di Union Estate di La Digue e la Vallee de Mai di Praslin oltre alle tasse di attracco per le isole di Cousin, Curieuse, Sister e Coco.
                                                                                                                                                                                                        Informazioni Utili:
                                                                                                                                                                                                        • È raccomandato un bagaglio morbido e non rigido
                                                                                                                                                                                                        • Pochissimi ospiti soffrono di mal di mare perché il catamarano offre un eccezionale stabilità. Ad ogni modo vi preghiamo di consulare il vostro medico o farmacista per eventuali medicine prima della partenza
                                                                                                                                                                                                        • I catamarani sono completamente assicurati e sono forniti di tutte le attrezzature moderne necessarie per la navigazione e la sicurezza a bordo
                                                                                                                                                                                                        • Gli skipper e i cuochi creoli sono stati attentamente selezionati e istruiti dal Dream Yacht Seychelles Customer Service Team e parlano fluentemente inglese e francese.
                                                                                                                                                                                                        • È possibile avere skipper che parlano italiano su richiesta e con supplemento. Gli ospiti potranno, su richiesta, avere in anticipo le informazioni relative allo staff che li accompagnerà durante la crociera.
                                                                                                                                                                                                        Per visualizzare l'itinerario della crociera con i relativi costi cliccare qui
                                                                                                                                                                                                          scopri di più

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                                                                                                                                                                                                          La parola Monsone deriva dalla lingua araba e significa stagione. I monsoni sono infatti i venti che spirano nelle zone tropicali e, a seconda delle stagioni, si muovono in direzioni diverse portando aria più o meno umida e di diversa intensità. Questi venti caratterizzano così il clima delle regioni a sud e a nord dell'equatore nei vari periodi dell'anno. Il movimento dei Monsoni dipende dal diverso grado di riscaldamento e raffreddamento delle acque oceaniche e delle terre circostanti, determinando nella zona un'ineguale distribuzione delle pressioni. Queste sono le regole generali che spiegano i complicati movimenti delle enormi masse di aria che determinano i fenomeni monsonici, ma per capire come sarà il clima in una determinata regione, in un certo periodo dell'anno, occorre documentarsi sulla zona specifica nella quale s'intende andare. Le Seychelles si trovano a soli quattro gradi a sud dell'Equatore, nell'Oceano Indiano occidentale. Qui da novembre ad aprile, spira Il Monsone di nord ovest, il quale porta aria calda dal continente africano, umida e piovosa, mentre durante l'estate, da maggio ad ottobre, il monsone tira da sud est, con aria più fresca e meno ricca di precipitazioni. Vi state chiedendo allora qual è il periodo migliore dell'anno per andare alle Seychelles? Ovviamente sempre, altrimenti che paradiso tropicale sarebbe... Il nostro suggerimento è quello di scegliere il soggiorno sulla costa opposta a quella da dove tira il Monsone, se siete sull'Isola di Mahè, che essendo piuttosto grande richiederebbe lunghi spostamenti alla ricerca di spiagge con l'acqua azzurra e calma. Nelle isole più piccole è facile spostarsi da un versante all'altro per trovare le condizioni migliori. Per il resto preparatevi a piogge più abbondanti nei mesi di dicembre e gennaio e a godervi quello che passa la natura, in ogni periodo dell'anno.
                                                                                                                                                                                                            scopri di più

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                                                                                                                                                                                                            Durante l'inverno australe (luglio, agosto e settembre) le megattere, Megaptera novaeangliae, giungono a centinaia dalle acque del Polo Sud in Madagascar, dove nascono, si accoppiano e restano per svezzare i piccoli prima di tornare nelle acque fredde. Si tratta di cetacei lunghi 15-18 metri dotati di lunghe pinne pettorali, caratteristiche rispetto ad altre specie, e un carattere socievole che manifestano con salti spettacolari. Con la guida di Max, il direttore, si possono organizzare escursioni giornaliere di "whale watching": si esce in barca,cercando di avvistare e avvicinare i gruppi di balene, in genere alcune femmine con i loro piccoli, senza disturbarli. La tecnica prevede di sorpassarli e a 100 metri da loro fermare i motori. A questo punto si avvicinano incuriosite, passando accanto e dando la possibilità di osservarle e fotografarle da vicino. Con un po di fortuna, si riesce anche ad ascoltarne il canto , con il quale comunicano a grande distanza, e per i più esperti immergersi con loro per osservarle sott'acqua e fotografarle. Gli esseri umani suscitano in genere un grande interesse in questi cetacei, che si trattengono perciò nei pressi delle barche a volte anche per una decina di minuti, a seconda della voglia che hanno in quel momento di socializzare con i "whalewatchers". Tuttavia, anche nel caso in cui le megattere rimangano con noi soltanto pochi istanti, questi costituiscono comunque un'esperienza indimenticabile.
                                                                                                                                                                                                              scopri di più

                                                                                                                                                                                                              Introduzione alla fauna del Madagascar

                                                                                                                                                                                                              Il Madagascar ha attratto su di sè le attenzioni dei naturalisti ben prima che Charles Darwin visitasse un altro gruppo di isole e mettesse a punto la teoria dell'evoluzione. A differenza delle Gallpagos, nate da eruzioni vulcaniche, il Madagascar un tempo faceva parte di un enorme supercontinente che copriva gran parte dell'emisfero meridionale. 200 milioni di anni fa (maf), quando i dinosauri dominavano la terra (i resti fossili del dinosauro più antico mai scoperti sono stati recentemente ritrovati nel sud del Madagascar), il Gondwana iniziò a separarsi fino a formare gli attuali continenti di Africa, Sud America, India, Antartide e Australia. Il Madagascar, ancora attaccato all'India, si separò dall'Africa 165 maf e andò alla deriva verso sud. Gli scienziati ritengono che 80 maf il Madagascar, e tutti i dinosauri che vivevano su quella terra, fossero già completamente isolati. Tuttavia, recenti scoperte sembrano indicare che a quell'epoca il Madagascar fosse ancora collegato all'India, che a sua volta era collegata da lingue di terra al Sud America mediante l'Antartide: ciò spiegherebbe le somiglianze genetiche tra i rettili del Sud America e quelli del Madagascar. è comunque probabile che molte delle forme di vita che si possono tuttora ammirare in Madagascar si siano sviluppate in completo isolamento. Probabilmente, gli antenati dei mammiferi terrestri e di molti dei rettili raggiunsero l'isola su tronchi d'albero o grossi rami alla deriva sul Canale di Mozambico. Pochi sopravvissero alla terribile traversata: la maggior parte degli animali africani (felini, canidi e relative prede, antilopi e altri ungulati) sono infatti assenti dal Madagascar. Nessuno sa con esattezza quante specie vivano oggi in Madagascar (forse 200.000 o più), ma l'80% di queste sono specie endemiche e la maggior parte di esse è dissimile da qualsiasi altra specie nota sul pianeta. 2000 anni fa in questo Eden fece la sua comparsa il predatore più vorace e temibile: l'uomo. Mille anni più tardi, oltre 25 specie di grandi dimensioni erano state spazzate via, incluse almeno 16 specie di lemuri (alcune delle quali grandi come gorilla), tre specie di ippopotamo nano e l'uccello più grande mai vissuto, l'uccello elefante (Aepyornis Maximus). Ci vollero altri 1000 anni perchè l'uomo si rendesse conto della propria follia ed iniziasse a proteggere invece di distruggere. Nel 1927 il governo coloniale francese creò le prime riserve, ma fu solo intorno al 1980 che le pressioni internazionali per la salvaguardia della biodiversità dell'isola spinsero il governo malgascio ad attuare una politica di conservazione organica ed efficace. Oggi il Madagascar è considerato una delle priorità mondiali in termini di conservazione. Molti parchi e riserve nazionali hanno abbracciato la filosofia dell'ecoturismo, probabilmente il modo migliore per il paese per ottenere la valuta estera necessaria per perseguire la politica di conservazione del suo straordinario ed inestimabile patrimonio naturale.
                                                                                                                                                                                                                scopri di più

                                                                                                                                                                                                                Camaleonti

                                                                                                                                                                                                                I camaleonti non cambiano colore per mimetizzarsi con l'ambiente circostante! Questa è una delle innumerevoli credenze di cui è stato oggetto questo straordinario animale per secoli. Nell'antichità, i camaleonti erano probabilmente considerati animali domestici (e trattati come tali) nei paesi dell'area del Mediterraneo: Aristotele descrive la loro capacità di cambiare colore e Shakespeare e i suoi contemporanei sostenevano che si nutrisse d'aria, convinzione probabilmente acquisita osservando i camaleonti rinchiusi in gabbia catturare gli insetti facendo saettare la lingua nell'aria. Nel mondo dei camaleonti, il colore è una lingua utilizzata per difendere il territorio, trasmettere emozioni e comunicare con i potenziali partner, oltre ad essere un modo per regolare la temperatura corporea. Il modo in cui queste variazioni di colore vengono ottenute è estremamente affascinante. Nello strato meno superficiale della pelle dell'animale si trovano delle cellule, dette cromatofori, contenenti pigmenti di colore diverso, in grado di espandersi e contrarsi in modo da far trasparire il pigmento. Le variazioni di colore sono controllate da una combinazione di attività ormonale e nervosa. Ad esempio, in un camaleonte impaurito o nervoso le cellule contenenti il pigmento marrone (melanina) si espandono, così che la sua pelle diventa più scura. Quando il camaleonte è tranquillo e rilassato, le cellule blu e gialle si combinano, dando luogo a sfumature più o meno intense di verde;mentre l'eccitazione sessuale produce un'esplosione di colori e disegni. Di notte, molti camaleonti appaiono di colore chiaro, quasi bianco, probabilmente a causa del completo rilassamento.
                                                                                                                                                                                                                  scopri di più

                                                                                                                                                                                                                  La maledizione della Brookesia

                                                                                                                                                                                                                  Il camaleonte è uno dei pochi protagonisti animali delmondo immaginario e rituale dei malgasci. E non a caso. La bizzarria delle forme e degli adattamenti, l'unicità dei comportamenti e l'estrema varietà di specie presenti sull'isola giustificano pienamente il fenomeno. Due sono i generi e 42 le specie, tutte endemiche: il più grande del mondo, il Chamaeleo oustaleti, lungo 68,5 cm, e il più piccolo, la Brookesia minima, di appena 3,2 cm vivono proprio qui, in Madagascar. Un'indagine etnozoologica condotta tra le diciotto trib+ malgasce ha documentato per il camaleonte oltre sessanta diversi nomi dialettali, settantasei proverbi, quattro leggende, quattro credenze popolari e otto jijy (poemi improvvisati). Dal più ovvio "brutto come un camaleonte" della tribù Tsimihety al meno sprezzante "il camaleonte si muove sulla roccia: fiero ma non bello", si passa a credenze e superstizioni che attribuiscono all'animale la capacità di portare sfortuna e addirittura la morte. I camaleonti del genere Brookesia sono i più temuti. Per i Mendiavato l'incontro con un camaleonte equivale al classico gatto nero dei superstiziosi nostrani. I Sakalava li chiamano Tsiny, geni della foresta. Mai calpestare una Brookesia, se ne ricaverà sicuramente una sciagura. "Meglio pestare i piedi a una divinità che a una Brookesia", dicono nel nord. Lo stregone Retrama del viallaggio Ampotetse era famoso per usare la paura e la repulsione dei malgasci nei confronti dei camaleonti per curare disordini mentali e turbe psichiche. Dopo un lungo cerimoniale fatto di frasi rituali e abluzioni, al malato veniva improvvisamente avvicinato un grosso rettile con l'effetto di una vera e propria "shock-terapia". È proprio il caso di ringraziare leggende e superstizioni, grazie alle quali nessun malgascio farà mai del male a una Brookesia...
                                                                                                                                                                                                                  Marco Lambertini
                                                                                                                                                                                                                    scopri di più

                                                                                                                                                                                                                    Okonjima Lodge and the Africat Foundation

                                                                                                                                                                                                                    Okonjima Lodge è posizionato tra le Omboroko Mountains, nel Waterberg Plateau, a metà strada tra il Parco dell'Etosha e Windhoek. Okonjima Lodge non è solo un resort di lusso ma è anche sede di The Africat Foundation, un'organizzazione no profit impegnata a lungo termine nella conservazione dei grandi carnivori della Namibia, in modo speciale dei leopardi e dei ghepardi. The Africat Foundation fu fondata nel 1992 e i primi anni sono stati dedicati al salvataggio dei ghepardi e leopardi dalle trappole dei bracconieri e a dare alloggio e protezione a questi esemplari rimasti orfani. Oggi l'organizzazione ha sviluppato molti altri aspetti ed attività, quali l'educazione ambientale, il preservare gli habitat, ricerca e allevamento degli animali orfani. Dopo tanti anni dedicati a questo lavoro, Okonjima Lodge e The Africat sono orgogliosi di aver raggiunto con successo la riabilitazione di numerosi leopardi e ghepardi della Namibia. Numerose le attività che organizzano per i propri ospiti, dall'avvistamento di questi felini all'incontro con i boscimani, walking safaris, birdwatching ed escursioni notturne. A causa delle specifiche attività svolte nel progetto, i bambini al di sotto dei 12 anni di età non sono ammessi.
                                                                                                                                                                                                                    #{ytub: allowfullscreen="" frameborder="0" height="315" src="https://www.youtube.com/embed/QkhYI_uwcyU" width="560"}
                                                                                                                                                                                                                      scopri di più

                                                                                                                                                                                                                      Gli Himba

                                                                                                                                                                                                                      Bisogna spingersi su a Nord, nella spettacolare e isolata regione del Kaokoland, per poter incontrare gli Himba, magnifica popolazione nomade che vive in comunità isolate nelle valli remote. Gli Himba si spostano seguendo la scarsa pioggia, alla ricerca di foraggio per il loro bestiame:più precisamente, questo compito è demandato agli uomini, mentre alle donne è affidata la cura del villaggio. Ogni insediamento Himba (onganda) è composto da più capanne (ondjuwo) edificate con rami e rivestite di terra impastata e lisciata con orina animale, disposte attorno ad un kraal centrale. Le tribù sono organizzate in clan con linea gerarchica femminile (omaanda), ed a capo di ogni onganda c'è una matriarca. La struttura sociale è estremamente complessa: ogni bambino Himba appartiene sia ad un clan patrilineare (oruzu) che ad uno matrilineare (eanda): ogni clan discende da un antenato comune, il cui mito è all'origine del clan stesso, ed ha i propri tabù, che riguardano il divieto di mangiare la carne di un determinato animale o la proibizione per le donne mestruate di mungere le vacche. Grande importanza nella cultura Himba riveste la cura dei capelli e l'acconciatura. I giovani maschi portano i capelli rasati con un solo ciuffo in mezzo alla testa: il ciuffo viene lasciato crescere con l'età e viene pettinato all'indietro in un'unica treccia (ondatu): raggiunta l'età del matrimonio (a circa 25 anni), i capelli vengono divisi in due trecce (ozondatu). Quando poi il giovane si sposa deve sempre nascondere i capelli con un berretto (ozondumbu) che si può togliere solo quando dorme ed in caso di lutto. Le giovani, invece, si fanno crescere i capelli che pettinano in due trecce rivolte in avanti, finchè, con la pubertà, possono sciogliere i capelli in tante trecce: da questo momento, possono avere rapporti sessuali. I capelli ed il corpo delle donne vengono spalmati di grasso e di ocra ed altre erbe aromatiche. Le acconciature delle donne sono molto particolari e indicano lo stato sociale: come detto, le due trecce sono riservate alle giovani, mentre le trecce cosparse di grasso ed ocra sono delle donne mature: la donna sposata aggiunge in testa un ciuffo di pelle di antilope (omarembe) che rivolta quando è vedova, e porta una conchiglia (ozohumba) fra i seni, proveniente dai mari dell'Angola e considerato un simbolo di fertilità. In particolare, questa straordinaria collana a doppio contrappeso dorsale (non ha equivalenti nel continente africano) attira lo sguardo del visitatore e può essere considerata l'icona del popolo Himba e, per estensione, della Namibia.
                                                                                                                                                                                                                        scopri di più

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                                                                                                                                                                                                                        Nell'angolo più meridionale della Namibia, il Fish River Canyon è una delle più grandi meraviglie naturali dell'Africa. L'impressionante gola scavata da questo affluente del fiume Orange è per dimensioni la seconda della Terra dopo il Grand Canyon statunitense. Proprio come il suo fratello maggiore, il Fish River Canyon è insieme un museo archeologico all'aperto e uno straordinario terreno di avventura. Per quanto isolato e selvaggio, il canyon percorso dal Fish River è stato conosciuto dall'uomo fin da tempi molto lontani. Secondo i San, uno dei primitivi popoli del deserto, il canyon fu creato dal serpente Koutelga Kooru, che si ritirò qui in una profonda tana per sfuggire ai cacciatori che lo inseguivano. La valle del Fish River offre al camminatore uno dei percorsi più affascinanti dell'intero continente africano, in ambiente selvaggio, spettacolare e assai ricco di sorprese, che richiede almeno quattro giorni di impegno. Il 'percorso è fattibile solo nel cuore dell'inverno australe (da Maggio ad Agosto) a causa del clima, ed è possibile solo a chi presenta ai ranger all'ingresso un certificato di idoneità fisica rilasciato 40 giorni prima dell'inizio del trekking. Per limitare l'impatto ambientale, possono incamminarsi sul sentiero non più di 40 persone al giorno. È consigliato prenotarsi con buon anticipo presso il Reservations Office, Nature Conservation and Recreation Resorts (00264 61 236975). È talvolta possibile ottenere un permesso all'ultimo minuto aggregandosi a un gruppo oppure approfittando di una cancellazione. Il più forte motivo di interesse del sentiero sono le forme bizzarre delle rocce e la straordinaria imponenza delle muraglie che chiudono i fianchi del canyon, nelle quali si alternano arenaria, calcare, scisti e granito; inconsueta ed emozionante è anche la vicinanza del fiume, il più lungo della Namibia e uno dei pochissimi in grado di ospitare pesci. Ricchissima la fauna della zona: zebra di montagna, numerosi babbuini ed in casi eccezionali si lascia avvistare anche il signore della savana, il leopardo. Facili da osservare dal fondo del canyon sono gli avvoltoi e le aquile. Assai scarsa è invece la flora, che a causa del clima torrido del deserto si limita a poche specie di piante grasse. L'itinerario inizia dal belvedere più settentrionale del Fish River continuando senza mai allontanarsi dal fiume attraversando parti più strette e selvagge con massi e sabbia soffice, suoli ghiaiosi, zone ricche di vegetazione fino ad arrivare a un riposante bagno nelle sorgenti termali di Ai-Ais. Si può scegliere tra numerosi posti per accamparsi e l'equipaggiamento è quello normale da trekking, necessarie tenda e autonomia per i viveri. È consentito dai regolamenti in vigore la possibilità di portarsi amo e lenza per pescare nelle acque del Fish River. L'acqua del fiume è potabile ed è comunque la sola a disposizione. La necessità di tutelare questa area èstata riconosciuta quando nel 1962 il canyon è stato protetto come monumento nazionale e nel 1969 l'intera area è diventata un magnifico Parco Nazionale. Questo articolo è tratto da "Trekking in Africa", un libro di Stefano Ardito, pubblicato nel 1996 da White Star, ha avuto varie edizioni straniere (Gran Bretagna, USA, Germania e Francia) e comprende 16 itinerari dalle Canarie al Capo di Buona Speranza. Stefano Ardito fa il giornalista, il fotografo e il documentarista, si occupa di viaggi, natura e montagna e ha pubblicato una settantina tra libri e guide.
                                                                                                                                                                                                                          scopri di più

                                                                                                                                                                                                                          La Grande Migrazione del Serengeti

                                                                                                                                                                                                                          Conosciuto come il più grande spettacolo della fauna selvatica in Africa, la grande migrazione è un fenomeno naturale eccezionale che coinvolge il più grande branco di animali sul pianeta. Il bisogno di mettersi in viaggio in risposta alla necessità di trovare pascoli nutrienti e freschi, coinvolge quasi due milioni di gnu, creando un modello naturale senza fine, che attraverso le vaste pianure del Serengeti raggiunge le colline del Masai Mara. La tempistica della migrazione del Serengeti è strettamente dipendente dalla stagione delle piogge, che con un movimento rotatorio raggiunge in estate la parte a nord del Serengeti, spingendosi oltre il confine segnato dal fiume Mara. Gli zoccoli tonanti delle mandrie e le enormi nuvole di polvere rossa che lasciano nella loro scia, sono diventati un'icona dei safari nell'Africa dell'est.
                                                                                                                                                                                                                            scopri di più

                                                                                                                                                                                                                            L'Africa secondo i miei occhi

                                                                                                                                                                                                                            Sono passati circa 5 anni dal mio ultimo viaggio in Kenya e se avrete voglia di leggere queste righe, proverò a spiegare con parole ciò che di immenso i miei occhi hanno colto e trasmesso alla mia mente affinché ne custodisse vivo il ricordo. Arrivata all aeroporto di Mombasa già noto le prime differenze con il Nostro Mondo, e mi accorgo che qui la gente sorride, saluta si prende cura di te anche se non ti conosce ed è la prima volta che ti vede e mi fa strano e rifletto sul perché noi civilizzati non sorridiamo mai, siamo sempre arrabbiati anche quando andiamo in vacanza, così scontrosi, ostili con gli altri eppure, penso io, basterebbe solo un ben arrivato , buongiorno , arrivederci ! Quindi perplessa e pensierosa mi avvicino al ragazzo del transfer che mi accompagna su un pulmino vecchio e mal messo che una volta raccolto tutti gli interessati, ci avrebbe condotti nella struttura prescelta. Arriviamo in questo piccolo boutique hotel che da subito si capisce essere un ambiente molto accogliente ed intimo…ed anche qui non si fa altro che salutare sempre e comunque a tutte le ore ed in qualsiasi momento. Ad ogni Jambo (questa è la parola in lingua swahili per dire Ciao) sulla mia bocca si stampa un sorriso ed io mi sento meglio. Le giornate qui in questo resort dall atmosfera magica, trascorrono all insegna del relax e dalla pace assoluta, sembra come se il tempo si sia fermato e mi spaventa il fatto che prima o poi dovrò tornare alla vita caotica di sempre, ma questo si sa fa parte del viaggio, quindi cerco di non pensare e continuo a vivere questo sogno. Sapevo che sarebbe stato emozionante e che non sarei potuta ripartire senza aver fatto il safari, d'altronde era stato quello il motivo del mio viaggio quindi non ci penso due volte…domani si parte per lo Twavo Est! Trascorro la notte pensando a quello che avrei visto, un turbinio di immagini confuse scorrevano nella mia mente, animali, colori, luoghi, sensazioni, ero davvero emozionata. La mattina ad attendere me ed altri ospiti del Resort un pulmino anche questo mal ridotto, che in circa 3 ore e mezza ci avrebbe portato al campo tendato dove avremmo trascorso la notte…per quanto io possa essere precisa nel descrivere ogni minimo particolare, non riuscirei a trasmettere le sensazioni che si provano durante un ‘esperienza simile, il safari è il momento in cui ti accorgi di quanto immensa e feroce sia la natura e di quanto si lasci vivere in totale sicurezza purché la si rispetti e ci si avvicini in punta di piedi. Così mentre fai un safari può ascoltare in silenzio il fruscio delle boscaglia mossa dagli animali che si muovo intorno a te, l odore della savana di un colore rosso intenso quasi indelebile, i suoni della natura e tu solo uno spettatore che assiste impotente a questo spettacolo dove i grandi predatori si muovono secondo delle leggi ben precise, le leggi che regolano il ciclo della vita. Ed ecco che, prima di andare a cena, dopo aver concluso una piacevolissima giornata di safari alla ricerca dei Big Five (cosi vengono chiamati leoni, bufali, elefanti, leopardi e rinoceronti), mi trovo ad assistere a quanto di più bello ed unico poteva capitarmi, una scena di caccia che prima di allora avevo visto solo nei documentari in tv: da lontano sette leonesse belle e maestose abbattersi su di un elefante mentre ignaro di ciò che gli stava per accadere, continuava a bere in una pozza d acqua posizionata a circa 10 metri di distanza da noi, probabilmente abbandonato dal branco perché malato. In quel momento avrei voluto urlare a quel povero elefante di andarsene, di girarsi, di scappare, ma nulla siamo rimasti tutti li a bocca aperta e le lacrime agli occhi per l immensa gioia e allo stesso tempo tristezza di assistere ad un evento simile. Il mio safari era terminato, avevo contratto una malattia nota a tutti il mal d Africa! Ora bisognava tornare alla vita reale dove gli animali della savana siamo noi e la savana la città nella quale viviamo fatta anche questa di colori, suoni, persone che nemmeno vagamente ricordano il Paese dai mille volti. Chiara Narcisi
                                                                                                                                                                                                                              scopri di più

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                                                                                                                                                                                                                              ... ci metto sempre un po'a rispondere. Incapace di racchiuderla in un'unica parola, mi sono sempre rifugiato nell'enumerazione degli animali, nelle infinite variazioni di albe e tramonti, attese e avvistamenti, rumori sconosciuti nelle notti stellate. Dal punto di vista logistico, sono due gli itinerari possibili in Tanzania. Il primo copre i parchi del nord: Serengeti, Ngorongoro, Tarangire, Manyara… Entrando nel Serengeti la prima cosa che ti viene in mente è: qui l'estraneo sono io. E ringrazi il cielo che sia così e speri che ancora sia così a lungo. La seconda cosa che capisci è: per sopravvivere qui bisogna essere grandi, forti e veloci. E non distrarsi mai. L'uomo, qui, non avrebbe scampo. L'agguato sonnolento dei leoni nell'erba bruciata della savana, la cruenta immobilità dei coccodrilli, l'insospettabile irascibilità degli ippopotami non permettono errori… Di Ngorongoro, un immenso cratere spento, posso dire solo che nessun documentario potrà mai rendere conto della struggente bellezza del posto, dei miracoli rosa di migliaia di fenicotteri e della nostalgia che accompagna le ombre della sera. Volendo, potrebbe già bastare per tutta una vita di ricordi. Il secondo itinerario porta a sud, al parco del Selous; il Rufiji River Camp si affaccia sull'omonimo corso d'acqua che attraversa il parco, popolato da colonie di ippopotami che, placidamente inattivi di giorno, trascorrono la notte brucando l'erba e intonando una ninna nanna di grugniti da far accapponare la pelle. Il Selous è il mondo prima della creazione, un caos primordiale di acqua e cielo che lascia senza fiato, brulicante di coccodrilli e ippopotami, elefanti, giraffe, antilopi e uccelli di ogni razza e specie… E poi sono tornato a casa. Un giorno, rincasando dal lavoro, ho intravisto qualcosa muoversi furtivamente dietro una recinzione. L'illusione è durata pochi secondi, il tempo di vedere un cane randagio sbucare stancamente da un cespuglio, ma l'emozione è stata ugualmente fortissima. E allora ho provato a immaginare l'attimo in cui, chissà quando, nel cuore di un uomo, forse un viaggiatore, si affacciò qualcosa di talmente inguaribile da richiedere la sutura di un nome nuovo, l'istante in cui si fu costretti a coniare il nome mal d'Africa.
                                                                                                                                                                                                                              Antonello Bacci
                                                                                                                                                                                                                                scopri di più

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                                                                                                                                                                                                                                La Fondazione Pierre Bergé - Yves Saint Laurent ha trovato il luogo dove custodire la loro collezione, ovvero il nuovo Musée Yves Saint Laurent Marrakech. Il museo, aperto nel mese di ottobre di quest anno ospita l'incredibile collezione della Fondazione, comprendendo 5,000 capi, 15,000 accessori di haute couture, e decine di migliaia di schizzi e oggetti. La struttura -- che, con le sue tonalità terracotta, si fonde perfettamente con l'ambiente marocchino circostante -- è stata progettata dall'azienda di architettura francese Studio KO. Tra le altre cose, hanno realizzato anche la Chiltern Firehouse a Londra, luogo che probabilmente sarebbe piaciuto a Saint Laurent. Studio KO s'inspira alla fluidità delle linee curve e dritte dei lavori di Saint Laurent, e ha cercato di riportarle nella costruzione avvalendosi di forme cubiche adornate da mattoni. Dall'esterno la struttura sembra fatta d'intrecci di fili mentre all'interno è da scoprire come una giacca di haute couture -- presumibilmente di lusso. Il museo è adiacente al famoso Jardin Majorelle, e include una grande quantità di mostre permanenti, un auditorium e una libreria di ricerca. La collezione di libri include volumi sulla storia araba e andalusa, così come la cultura barbera e i lavori di Yves Saint Laurent. Pierre Bergé, compagno storico di Saint Laurent e presidente della Fondazione Pierre Bergé - Yves Saint Laurent ha detto in merito: "Yves Saint Laurent ed io abbiamo scoperto Marrakech nel 1966, e non l'abbiamo mai lasciata. La città ha influenzato profondamente la vita e il lavoro di Saint Laurent, in particolare nella ricerca dei colori. Gli architetti di Studio KO hanno condiviso la sua passione per Marrakech. La loro ammirazione per la regione e la sua cultura, come per il loro rigore artistico e intellettuale, ci ha fatto intendere che sarebbero stati gli architetti perfetti per questo progetto. Lavorano in modo pulito e ordinato e lo stile ricorda i lavori di Saint Laurent. Siamo lieti di poter sviluppar una visione per un progetto di tale statura, emblematico come l'opera di Yves Saint Laurent
                                                                                                                                                                                                                                - Jack Sunnucks -
                                                                                                                                                                                                                                  scopri di più

                                                                                                                                                                                                                                  Olduvai George

                                                                                                                                                                                                                                  La gola di Olduvai è un sito in Tanzania che ha la prima prova dell'esistenza di antenati umani. I paleoantropologi hanno trovato centinaia di ossa fossili e utensili in pietra nella zona risalente a milioni di anni, portandoli a concludere che gli esseri umani si sono evoluti in Africa. Olduvai è una scrittura errata di Oldupai, parola Maasai per una pianta di sisal selvatica che cresce nella zona. La gola si trova nella Grande Rift Valley, tra il Cratere di Ngorongoro e il Parco Nazionale del Serengeti. Si trova a 30 miglia da Laetoli, un'altra area ricca di fossili. La gola di Olduvai si è formata circa 30.000 anni fa ed il risultato di attività geologiche aggressive e flussi. La gola è lungo circa 48 chilometri (48,2 km) e profondo 295 metri (89,9 metri), non abbastanza grande per essere classificato come un canyon. Un fiume taglia attraverso diversi strati per formare quattro letti singoli, con i più antichi stimati a circa 2 milioni di anni. A Laetoli, a ovest del Crater Ngorongoro, le impronte ominide sono conservate in roccia vulcanica 3,6 milioni di anni e rappresentano alcuni dei primi segni dell'umanità nel mondo. Sono stati trovati Australopithecus afarensis, una creatura alta da 1,2 a 1,4 metri. Le impronte di queste sono visualizzate nel museo Oldupai. I discendenti più avanzati degli omini di Laetoli furono trovati più a nord, sepolti negli strati della gola di Oldupai, profonda 100 metri. Gli scavi, soprattutto dagli archeologi Louis e Mary Leakey, hanno prodotto quattro diversi tipi di omino, mostrando un aumento graduale della dimensione del cervello e della complessità dei loro strumenti di pietra. Il primo cranio di Zinjanthropus, comunemente noto come 'Nutcracker Man', che ha vissuto circa 1,75 milioni di anni fa, è stato trovato qui. La ricerca più importante comprende Home habilis, Zinjathropus e le impronte di Laetoli.
                                                                                                                                                                                                                                    scopri di più

                                                                                                                                                                                                                                    Abbecedario

                                                                                                                                                                                                                                    A come Aborigeni – Custodi della terra australe, vivono in pace da 40.000 anni con le loro facce pasoliniane e la loro cosmogonia fantastica. I bianchi arrivati qui li consideravano inferiori perché non conoscevano la ruota. Ma provateci voi, a spostarvi per il deserto su un carro trainato da canguri… B come Barna Mia – Uno dei segreti meglio custoditi del WA, un fazzoletto di foresta primigenia assediato da ettari di terreni agricoli, un alfabeto di alberi che racconta una meravigliosa storia di evoluzione. E la possibilità di vedere molti dei più rari e straordinari marsupiali di questa terra. B (2) come Birra – Prosperano le microbirrerie, nel mondo sottosopra, e molte sono di assoluto livello. Per gli appassionati (e a giudicare dalle pance, qui in WA ce n'è un bel po'), una vera goduria! C come Cielo – Qui, il cielo è uno sterminato pascolo di nuvole. D come Delfini – A Monkey Mia sciabordano inopinatamente a riva di mare, liberi, in pochi centimetri d'acqua, dove una carezza trattenuta è gesto di rispetto. Un'esperienza spiazzante, unica nel suo genere, anche se personalmente li ho trovati più emozionanti in mare aperto. E come Echidna – F come G come Guida a sinistra – Un po'di fatica si fa, all'inizio, e magari nel traffico di Perth non è proprio intuitiva. Ma basta lasciarsi alle spalle la città e il traffico si dirada fino ad dissolversi completamente procedendo verso nord. E la guida a sinistra cessa di essere un problema. G come Galah – Stravaganti pappagalli in livrea rosa confetto che accompagneranno il vostro viaggio con un incessante chiacchiericcio. Ce n'è talmente tanti che alla fine ti dimentichi quanto siano belli... H come Hotel – Ma anche come B&B, lodge, ostelli, etc. Poca roba qui nel WA, gli alloggi da questa parte del mondo sono pochi, costosi e/o spesso pieni. Prenotate in anticipo, siate pronti ad adattarvi e fate ricorso all'arte di arrangiarvi. Se invece siete adepti della setta dei campeggiatori/camperisti, le cose vanno molto meglio: i sandgropers (v.) sono anime itineranti e si sono costruiti un paese a loro immagine e somiglianza. I come Inglese – Non parlate inglese? Nessun problema, neanche i sandgropers (v.). Armatevi di pazienza e senso dell'umorismo, tirate fuori le mani dalle tasche e iniziate a gesticolare: siamo pur sempre italiani, no? K come Kalbarri, Karijini, Kakadu, Kimberly… – La Terra Primigenia per eccellenza, da sorvolare camminare guadare fino allo sfinimento. J come L come Leeuwin Estate – M come Margaret River – La regione vinicola del WA è assolutamente magnifica. Pappagalli, eucalipti e uno shiraz sopraffino. N come Ningaloo Reef – Ce ne vuole, per arrivare fin qua. Ma se siete venuti in Western Australia, e avete avuto la pazienza e la caparbietà di guidare fino a Coral Bay e non vi siete fatti scoraggiare dall'infimità del luogo, fate un ultimo, decisivo sforzo: salite su una barca. Rovesciate la prospettiva, e scoprirete un mare che non ha nulla da invidiare alle Maldive e soprattutto una fauna con pochi uguali al mondo. Squali balena, delfini, tartarughe, dugonghi, balene, mante, razze, squali, pesci tropicali e una barriera a tratti straordinaria, il tutto a portata di snorkelling. Ah, dimenticavo la cosa forse più importante: sarete (quasi) soli, quassù. O come Orari (dei negozi) – Dalle 10 di mattina alle 5 di pomeriggio. Il che sarebbe un problema, se ci fossero davvero dei negozi e qualcosa da comprare. Tranquilli: non c'è nulla di tutto questo, in WA… O (2) come Off the beaten track – Se siete alla ricerca di sentieri poco battuti, meraviglie sconosciute dagli stessi locali, folgorazioni inattese, sappiate che qui ci sono alcuni dei luoghi più belli e meno frequentati del pianeta. P come Previsioni del tempo – Da inaffidabili a completamente inaffidabili, con rovesci temporaleschi in giornate assolate e concezione surrealista della nuvolosità, soprattutto lungo la costa. Q come Quando andare – Prima possibile. OK, scherzi a parte, tutte le stagioni sono buone ma con qualche distinguo. Se intendete salire verso nord, e soprattutto verso il Kimberley e il Kakadu NP, è preferibile la nostra estate; per la zona a sud, il nostro inverno corrisponde alla piena estate australe e il tempo sarà magnifico. Primavera ed autunno sono eccellenti compromessi in entrambe le aree. R come Roadhouse – S come Sandgropers – Abitanti del WA. Esseri umani piuttosto rudimentali (soprattutto al nord), schietti, eminentemente pratici e vagamente omerici (nel senso di Homer Simpson). Si spostano su macchine enormi, spesso in compagnia di roulotte, camper e motoscafi. Parlano una lingua tutta loro ma a differenza di altri non tentano di spacciarla per inglese (v.). T come Telstra – La principale compagnia telefonica qui in WA, quella che garantisce la migliore copertura e, a detta dei locali, la peggiore assistenza. Ma basta comprare una scheda e un mese (30 dollari) di credito, e potrete parlare, inviare SMS e navigare in Internet a volontà. T (2) come Tree Top Walk – U come Unesco – Ha recentemente riconosciuto il Ningaloo Reef (v.) come World Heritage Site. Ma se avrete la fortuna di girare un po'il WA, la domanda che vi porrete più spesso sarà, e questo perché non è patrimonio dell'umanità? V come Vino Y come W come Whale Watching – Assolutamente fantastico lungo tutta la costa, a Ningaloo abbiamo visto nuotare e spanciarsi centinaia di megattere. Uno spettacolo indimenticabile, un'allegria del cuore. W come Windawarri Lodge (Tom Price) – Se volete visitare il Karijini, dovrete alloggiare al Windawarri Lodge, la struttura ricettiva della società mineraria Rio Tinto dove, per un prezzo che a Parigi che vi garantirebbe una suite al Ritz, avrete diritto ad una camera monacale con un abbozzo di bagno, ad essere svegliati ogni mattina alle tre e mezzo da un corteo di caterpillar e a mangiare in compagnia delle maestranze locali in una mensa aziendale che la sera apre alle 4 e chiude alle 8.30, dove è vietato entrare con scarponi e braccia nude e in cui i cibi sono contrassegnati da un cartellino con il relativo apporto nutrizionale. Detto questo, il Karijini (v.) è una meraviglia assoluta. Z come di Antonello Bacci
                                                                                                                                                                                                                                      scopri di più

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                                                                                                                                                                                                                                      Una pinna sorge dall'acqua e un brivido passa lungo la schiena. Il grande squalo bianco è stato da sempre descritto nella cultura popolare come un assassino ed è considerato il più temibile dei predatori marini. Nella cinematografia passata e recente, lo squalo è ritratto come l icona del terrore. Come dimenticare, del resto, il film "Lo squalo"? Il film, diretto magistralmente da Spielberg non ha certamente reso giustizia allo squalo bianco e più in generale a tutti i suoi parenti vicini e lontani, come ha ammesso anni dopo lo stesso regista. Anzi ha confuso e innescato una serie di comportamenti irrazionali a danno unicamente degli squali. I pescatori all epoca reagirono con una aggressività insensata, soprattutto dopo alcuni attacchi che si verificarono lungo le coste occidentali americane. Diedero il via ad una caccia sfrenata, catturando centinaia di esemplari ed è proporio per questo motivo che il loro numero sta diminuendo così tanto che, essere in grado di avere un incontro con ravvicinato con il grande squalo bianco sta diventando ormai un privilegio. Il paradiso per eccellenza per osservare lo squalo bianco è il sud Africa. Lo shark-watching in quest area si effettua principalmente lungo le coste da Sodwana Bay fino alla regione del Capo. Non è necessario essere in possesso di certificazione dive poichè la gabbia che vi separa dai grandi bianchi è situata a pochi metri sotto la superficie dell'acqua. Preparatevi per l'esperienza più emozionate della vostra vita.
                                                                                                                                                                                                                                        scopri di più

                                                                                                                                                                                                                                        Suggestioni Antropologiche per un viaggio in Cambogia e Vietnam

                                                                                                                                                                                                                                        Vietnam e Cambogia hanno plasmato l immaginario dei viaggiatori occidentali fin dai tempi della colonizzazione francese dell Indocina, che possiamo collocare temporalmente tra il 1858, epoca del primo intervento militare nella regione, e i trattati di Ginevra del 1954 che posero fine al dominio francese in loco. Nella letteratura coloniale, le commistioni tra natura e cultura, e la fascinazione esercitata dalle rovine archeologiche ‘riscoperte dagli esploratori coloniali – ma mai veramente abbandonate dalle popolazioni locali – hanno contribuito a costruire un immagine di cesura tra un passato maestoso rappresentato dalle vestigia architettoniche degli antichi templi, le città abbandonate e una malintesa primitività delle popolazioni contemporanee, viste non come eredi di quelle civiltà, ma come una sorta di involuzione socioculturale che con quel passato non ha nulla in comune. A questo immaginario, che è andato consolidandosi per tutta la prima metà del Novecento, si sono venuti a sovrapporre i conflitti e i genocidi che hanno interessato la stessa area nella seconda metà del Novecento, e che hanno contribuito ad acuire ulteriormente il senso di cesura tra passato e presente. A distanza di un secolo, cosa possiamo allora aspettarci da un viaggio che attraversi questi due paesi del Sud-est asiatico? Mi sento di incoraggiare coloro che visitano Cambogia e Vietnam in una direzione opposta a quella degli immaginari tradizionali, e che consenta di vedere, in tutta la loro complessità e suggestività, quanto esista un filo rosso che colleghi il passato al presente lungo un continuum di spazi e di incontri, oltre che di tempi. L influsso dell induismo sull intera penisola indocinese ha avuto come principale esito culturale, sul piano sociopolitico, l incorporazione della divinizzazione della figura del Monarca (rajadharma), testimoniato anche dall architettura presente nei templi pre-angkoriani ed angkoriani, che è tuttora parte del sentire comune dei cambogiani nei confronti del re. La regione ha visto inoltre la presenza costante di Giappone e Cina, colossi che attualmente stanno contribuendo, forse più del processo di occidentalizzazione di cui tanto si è parlato negli ultimi anni, a modificare ulteriormente gli scenari geopolitici, culturali e turistici. di questi due paesi. Il crescente turismo sessuale – piaga di cui spesso si parla e che viene sovente imputata solo esclusivamente alla presenza di turisti occidentali che pure costituiscono una larga fetta di pubblico, in questo senso – e la presenza sempre più massiccia di casinò, soprattutto in Cambogia, sono indicatori di questa influenza economica e culturale. Vorrei sottolineare come anche la storia contemporanea abbia contribuito a delineare gli immaginari turistici di Vietnam e Cambogia. Se per il primo, la presenza di un mercato abbondante di souvenir legati alla guerra del Vietnam ha contribuito a creare itinerari che ripercorrono quanto ripreso a più riprese dalla cinematografia, in Cambogia a lungo si è venuto a creare un duplice immaginario fatto, da un lato, di passato imponente e di civiltà antiche completamente cancellate, e dall altro dal regime genocidario che ha decimato la popolazione negli anni Settanta. Ma si è trattato veramente di un momento rivoluzionario che ha cancellato il passato? A ben vedere, come ci ricorda Matilde Callari Galli (1997), i vertici dei Khmer Rossi, guidati da Saloth Sar (meglio noto con lo pseudonimo di Pol Pot), avevano di fatto ripreso una gestione del potere che molto riprendeva la gerarchia classica dei monarchi Khmer, a dimostrazione di quanto alla fine le ideologie politiche si fossero innestate su un patrimonio culturale di gestione del potere politico che era preesistente. Siamo certi che ulteriori spunti alla scoperta verranno dalle vostre esperienze personali, come è giusto che sia. Perché il viaggio, qualunque esso sia, è un esperienza prima di tutto soggettiva, e ogni sguardo che viene riportato a casa, è quello giusto. Federica Ferraris Antropologa del Turismo per Darwin Viaggi
                                                                                                                                                                                                                                        Letture suggerite Matilde Callari Galli, In Cambogia. Pedagogia del totalitarismo, Roma, Meltemi, 1997. Tiziano Terzani, Un indovino mi disse. TEA, 2014 (1995).
                                                                                                                                                                                                                                          scopri di più