Tanzania, Secondo Movimento. Quando eravamo re
Per l ultima sera mi siedo sul tetto del mondo. Le gambe a penzolare, lo sguardo che vaga tra il rosso intenso che mi circonda e la caldera, laggiù, solo apparentemente immota. Ho la sensazione che l universo intero stia tramontando. La logica mi dice che questa non può essere la cima del mondo, che sono solo a 2500 metri di altezza, che la caldera ha un ampiezza di appena 20 km. La logica, appunto. Ma sedersi quassù, a penzolare, sul cratere del Ngorongoro non ha nulla di logico. Il cielo, senza preavviso, precipita in un attimo dentro un rosso irreale, la caldera si illumina di mille colori e la vita, al suo interno, si sveglia e si addormenta, interrompe la caccia e un altra ne inizia, ruggisce, respira, corre, cammina, sosta. Si riposa, si affanna, sbadiglia, barrisce, ulula, cinguetta, urla, implora silenzio. Milioni di anni ci sono voluti, milioni di anni perché nel vulcano dormiente si sviluppasse la vita e non ne uscisse più. Solo le aquile, che volteggiano nella loro personalissima tela rossa, sembra possano uscirne e poi, di nuovo, precipitare al suo interno. Mi porto nel cuore tutto quello che ho visto durante il giorno, laggiù, al riparo del mio esoscheletro di ruote e motore. Con Nunzia, Bruno, Nuhu, Emily, a vagare, saltare, sostare. Gli occhi e i sensi allertati, a guardare, fiutare, sentire. Non può esserci altro mondo che questo mi sono ripetuto per tutto il giorno. L altezza mozzafiato delle giraffe, l arancio nero del manto, lo sguardo infinitamente dolce, le ciglia lunghe di un cartone animato. La mole imperiosa degli elefanti, la tenerezza dei cuccioli, seminascosti tra le zampe protettive degli adulti. L eleganza strafottente dei ghepardi, la riservatezza timida e feroce dei leopardi, la goffa trasandatezza delle jene, la solitudine degli sciacalli. La radiosa bruttezza degli avvoltoi, appollaiati a gruppi di tre, come arpie mitologiche. L inconsapevolezza beata delle famiglie di facoceri, la sfrontata immobilità dei leoni, la goffa timidezza degli struzzi, le praterie sconfinate, gli acquitrini, le acque dolci del Magadi, il volo lussurioso dei fenicotteri. Il canto profondo degli ippopotami, la riservatezza nascosta dei rinoceronti. L interminabile viaggio degli gnu e delle zebre, compagni di vita e di paura. L attesa crudele dei coccodrilli, la corsa saltellante delle gazzelle, lo sguardo sperduto dei Dik dik. Le gambe a penzolare, l ultima lingua di fuoco nel cielo, una fiammata, poi il buio. La tela diventa nera, lo sguardo coglie l ultimo silenzioso volo di un aquila in un residuo di luce, poi il nulla. Una frazione di secondo e appaiono le stelle, tutte, non una dopo l altra, ma insieme, fragorose e lucenti, come i musicisti di un orchestra quando si spalanca il sipario. In questa giostra di stelle, le immagini dell Africa continuano a rincorrersi nella mia mente. Vedo un coppia di ragazzini Masai, nei loro costumi iniziatici, il volto dipinto, il sorriso fiero e ammiccante. Ne ho visto uno, steso ai bordi della strada, teneva un bastone nella mano destra e un cellulare nella sinistra. Le gambe a penzolare, i Masai lungo il cammino, i loro villaggi, 50 euro per vederli danzare e visitare le loro capanne, di fango e sterco e paglia. Poi sempre loro, liberi di pascolare tra i leoni, perché sono loro, i leoni, ad aver paura dei Masai. Ne sentono l odore, l odore spaventoso di quando questo era ancora un popolo di cacciatori, e il leone, il re, non dimentica. Nunzia mi poggia una mano sulla spalla, non vieni a mangiare? mi dice, e io, sazio, penso, ancora? Poi mi alzo e vado a mangiare coi denti. Marco Graffi Continua - 2/3