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Un biologo al Museo di antropologia

Sono sull'aereo che mi sta portando a Mexico D.F. e leggo qualcosa sulla storia di questo popolo, o meglio di questa raza. Non ci vuole molto perchè i miei pensieri entrino in risonanza con i ricordi di un altro 'sud del mondo'visitato qualche anno fa, il Brasile. Anche lì, fu storia di uomini e donne sradicati e sottomessi con un implacabile rituale di violenza e coercizione, ammantato di civiltà e benedetto con l'acqua santa. L'allegria di questi popoli condannati alla povertà materiale è l'unico aspetto che piace ricordare per scolorare quanto basta il segno doloroso lasciato in regalo dal progresso. All'aeroporto c'è una confusione rassicurante e gli sguardi e le espressioni, per me indecifrabili, mettono piacevolmente in fuga i miei ultimi, deboli tentativi di 'farmi un'idea'. Ancora non lo so, ma troverà la trascrizione del mio stato d'animo nelle parole di Pino Cacucci: "L'ingrediente più nefasto della cultura occidentale sia proprio questa nostra ormai istintiva consuetudine ad analizzare e giudicare filtrando i comportamenti altrui attraverso una rete di convenzioni che ci illudiamo siano assolute e scontate." Lascio per la prima volta scorrere dentro di me le immagini di vita, i suoni della lingua e i gesti così come li percepisco. E provo un piacere finalmente indescrivibile, in quanto completamente istintivo. I sorrisi e gli abbracci di chi mi accoglie hanno il potere di farmi dimenticare l'ansia che, sia pure sfumata, sempre accompagna i miei viaggi di lavoro. Così, il giorno dopo il mio arrivo in questa terra finora solo orecchiata, ancora stordito nel ritrovarmi sotto i piedi una terra altra, incontro quelli che nei giorni a venire saranno i miei colleghi di lavoro (lei messicana lui argentino, insieme un meraviglioso esempio di raza mestiza) ma che oggi sono semplicemente i miei angeli custodi e le mie guide nel lungo viaggio nella storia del Messico che mi appresto ad intraprendere. "Uno" dico in italiano e in spagnolo alla cassiera, e ribadisco la richiesta con un'alzata d'indice, fosse mai. Intorno a me, nell'atrio del Museo Antropologico, sento parlare soltanto messicano, una gradevolissima imitazione locale della lingua ispanica, che ha in più il vantaggio poter essere riprodotta senza troppi sibili e raschi di gola. Biglietto, resto, un gracias marcato dall'inconfondibile accento aquilano, e sono dentro. Passeggio e vedo gli oggetti esposti, leggo le note sui pannelli, prendo affannosamente appunti, mi aggrappo disperatamente alle descrizioni degli oggetti. Poi, inspiegabilmente, i miei passi e i miei pensieri si fanno più lenti mentre galleggio tra il Tempo di Mezzo, gli Aztechi e una riproduzione del campo della ullama. Pi? avanti, il mio viaggio nel tempo mi regala ricordi futuri di utensili impreziositi da lavorazioni squisite, che regalano una lievità sensoriale e immaginifica a strumenti destinati ad un uso monotono e ripetitivo. La sontuosità e la finezza di paramenti e capi di vestiario indossati in occasioni delle cerimonie religiose testimoniano di un percorso di ricerca e di acquisizione di abilità manuali sempre più evolute. Mi viene in mente l'espressione "avere le mani d'oro" e sorrido, perchè questa abilità manuale è una ricchezza nel vero senso della parola. Più in là, la celebrazione gioiosa e cruenta del raccolto rappresentata su ampi pannelli in pietra evoca la magia del rapporto di questo popolo con la Natura che, pur capricciosa ed ostile, regala il dono della continuità della vita sotto forma di chicchi di granturco. La lettura delle ricette poi mi coinvolge profondamente: la trasformazione della materia alimentare, che dalla necessità di dover conservare risorse preziose, ha faticosamente conquistato il lusso della varietà delle preparazioni per solleticare e scuotere i sensi. Tr i molti oggetti lavorati con pazienza e maestria ce n'è uno che mi commuove: un vaso di ossidiana, elegantissimo, traslucido, raffigurante una scimmietta. Resto ipnotizzato ad osservarla: e il ricordo recente di quanto visto in precedenza svanisce, spazzato via dalla presenza ormai tangibile di un popolo, di uomini e donne, dei loro affetti, e dei loro desideri e delle loro speranze. Alla fine di questo straordinario percorso museale, ricco dei prodigi della cultura e della spiritualità dei popoli indigeni, come tre colpi al cuore si materializzano altrettanti esempi dello scempio che i popoli conquistatori e saccheggiatori perpetrarono ai danni delle popolazioni indigene e dei loro manufatti: una pietra sacrificale trasformata in fonte battesimale, due pietre poste all'ingresso di un campo per l'ullama utilizzate per costruire un altare, e una piattaforma sempre in pietra lavorata trasformata in macina. Un'epitome impietosa, discreta ma efficace della fine di una civiltà. Nella logica della conquista viene spesso teorizzata la soppressione di ciò che c'era prima, l'annientamento indiscriminato di persone, cose e idee. E il Messico questa teoria fu implacabilmente applicata. Mi incammino verso l'hotel percorrendo il Paseo de la Reforma con la mente vuota e lo stomaco pesante. Le giornate di lavoro, i momenti divertenti e le sortite gastronomiche con gli amici messicani hanno saputo avvicinarmi al senso della messicanità in modo allegro, ma sempre accompagnato da un sottile malessere che definirei 'consapevolezza dignitosa'. Forse certi epiloghi rapidi e ineluttabili non cancellano la memoria, ma nel ricordo, a volte soffice e piacevole, altre tragico e doloroso, producono il curioso effetto di amplificare proprio ciò che era destinato all'oblio.  Ugo Visconti